Un uomo serio a Berlino

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Sembra che a Berlino stiano costruendo una specie di... muro.

Il ponte delle spie (Steven Spielberg, 2015).

Rudolf Abel - ovviamente non si chiamava così - imparò a dipingere in America. Il mestiere del pittore era la copertura ideale per una spia: quando sei un artista, nessuno fa caso ai tuoi orari o ai tuoi itinerari. Puoi sparire per mesi e nessuno si preoccupa. Ma anche se resti fermo nello stesso posto per ore e ore, nessuno si porrà il problema: basta che davanti hai un cavalletto. Abel non era un pittore, ma non è che avesse molto altro da fare nei suoi lunghi pomeriggi en plein air o nella sua base segreta camuffata da atelier. Durante la guerra era stato un elemento prezioso, ma negli anni Cinquanta, a New York, l'impressione è che tirasse a campare: dopo l'esecuzione dei Rosenberg, gran parte dei suoi contatti erano bruciati. In più il KGB gli aveva procurato un compare inaffidabile, un finlandese che si scordava in giro i microfilm e col vizio peggiore che una spia possa avere, l'alcool.

Il nemico ti ascolta.
Abel invece dipingeva. Stava diventando bravo, anche se un po' accademico. In effetti la sua freddezza per le avanguardie, e un certo debole per il realismo socialista, alla lunga avrebbero potuto insospettire qualche collega pittore - se a bruciarlo non avesse provveduto il finlandese. Sapeva che Abel era scontento di lui. Quando da Mosca lo chiamarono a rapporto, lui perse la testa e si ritrovò nell'ambasciata americana di Parigi. Si guadagnò la fiducia dei federali facendo una manciata di nomi, tra cui quello di Abel. Condannato a morte, mantenuto in vita in attesa di essere usato come merce di scambio (con la prospettiva di essere giustiziato in patria da chi sospettava che avesse tradito) Abel in cella continuò a dipingere, diventò sempre più bravo. Non aveva molto altro da fare, e comunque preoccuparsi non sarebbe servito.

A volte Spielberg sembra voler estrarre il cuore pulsante dell'America, altre volte sezionarne il sistema nervoso. Quello che ci conquista è il fatto che sia impossibile capirlo prima di dare un'occhiata: gli basta passare da una storia all'altra per oscillare allegramente dal pacifismo alla paranoia. L'autore che più di tutti ha amato gli alieni e ci ha invitato ad accoglierli a braccia aperte, è anche quello che ce li ha mostrati più spietati e assetati di sangue. Potrebbe essere interessante cercare di organizzare i suoi film in coppie antitetiche, ad esempio: Incontri ravvicinati come un anti-Squalo, La guerra dei mondi un anti-ET. Il soldato Ryan un anti-1940The Terminal un anti-Prova a prendermi. Per certi versi Lincoln si presentava come una specie di Schindler allo specchio: le malefatte di un presidente eroico contro le opere di bene di un nazista profittatore.


Il Ponte delle spie riflette di nuovo allo specchio alcuni temi di Lincoln: se là la sceneggiatura si attardava compiaciuta sui metodi moralmente discutibili di un grande personaggio con un grande scopo, qui Spielberg inverte le lenti e si concentra su un piccolo uomo che salva il mondo semplicemente facendo il suo lavoro, senza deviare dalla retta via o ammettere strappi alle regole, cascasse il cielo (e il cielo poteva cadere davvero: le spie sovietiche si erano appena impadronite dei segreti del progetto Manhattan). Tom Hanks è ancora una volta il buon americano qualunque, come nel soldato Ryan (mentre in The Terminal era l'opposto, il buon selvaggio); ancora una volta l'avvocato di un alieno, che si appassiona al suo caso disperato e alla fine non solo riesce a salvarlo, ma mostra la superiorità del sistema giudiziario migliore del mondo. Spielberg ci crede sul serio, e la sua fede non ci sorprende: è molto più bizzarro che facciano mostra di crederci i fratelli Coen (continua su +eventi, e Buon Natale!)

Il loro copione, comunque uno dei meno storicamente inaccurati che Hollywood abbia messo in scena negli ultimi anni, è notevole per la quantità di materiale che decide semplicemente di ignorare: è il film di un avvocato, ma c'è poco spazio per le procedure e per l'inchiesta. Lo stesso profilo della spia Abel (un memorabile Mark Rylance) si staglia sul vuoto, dietro di lui non c'è sfondo né paesaggio. Persino la storia degli aerospia U2, così potenzialmente ricca di spunti, è liquidata in pochi minuti e con una sola (notevole) scena d'azione. Tutto il resto del film è davvero il ritratto in primo piano di un "uomo serio" che fa scelte difficili ma giuste, ritrovandosi in situazioni assurde ma senza mai perdere il senso di quello che sta succedendo - quel senso che tutti avevano smarrito nel delizioso film spionistico dei Coen, Burnt After Reading. Stavolta all'uomo serio le cose andranno bene, ritroverà il suo volto e la stima dei famigliari: la fiaba gelida avrà il suo lieto fine alla Spielberg, al punto che non è poi così strano ritrovare questo film di guerra fredda e spionaggio nelle sale per Natale. Chi ha gusto per i paradossi al limite noterà come la morale di tutta la storia sia pronunciata in russo, la prima e unica frase in russo che sfugge alla spia. Restare saldi, restare in piedi: inutile preoccuparsi. La Storia ci assolverà o ci masticherà vivi, non dipende da noi. 
Il ponte delle spie è al Citiplex di Alba (20:45), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (17:00, 19:55, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10), al Politeama di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Buon Natale!
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Star Wars 7, la recensione che non cede al lato spoiler

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In questi casi il tempo è tutto, non lo perderò in preamboli. Ho visto l'Episodio VII, prima di molti di voi.
È un grande potere quello sento in me, ora. Saprò usarlo al meglio? Saprò scrivere una recensione senza danneggiarvi, senza farvi venire neanche il sospetto che il nuovo xxxxxxxxxxxxx e il xxxxxxxxxxxxxxx di xxxxxxxxxxx, e che alla fine xxxxxxxxxxxxx si xxxxxxxxxx per xxxxxxxxxxxxxxx?

È così difficile, Maestro!

Oh come potrei approfittarne.


Star Wars VII: il risveglio della Forza, (J. J. Abrams, 2015)

Sento il Potere, ma sento anche la Paura. Forse non sono l'uomo adatto. Sono salito in questa cosa quando ero appena un giovanetto. Non capivo nulla di intreccio e di suspense, di montaggio men che meno, non capivo nulla di cinema e forse mai lo capirò. Volevo solo scappare dal mio pianeta di rottami, volevo vedere lo spazio. Ancora non sapevo quanto potesse essere freddo e avvilente, certe volte. Mi hanno detto un arnese in mano, tie', datti da fare. Spara ai film brutti e difendi quelli belli, inoltre da qualche parte c'è una principessa da salvare, un mega-cannone che ha sempre un minuscolo punto debole, e non scordarti che estetica ed etica sono gemelle dello stesso seme.

"Estetica e cosa?"
"Lascia perdere. Spara ai brutti. Io ti copro".

Trent'anni più tardi eccomi qui, Recensore della Grande Provincia di Cuneo. C'è senz'altro in me un briciolo di grandezza - ma c'è anche tanta meschinità, tanta invidia - ed ecco che all'improvviso precipita da queste parti un droide con un biglietto per la prima proiezione di Episodio VII. Che cosa devo fare maestro?

Chiudi gli occhi.

Ma così non si vede un...

È un modo di dire, idiota. Immagina il respiro dei tuoi lettori. Domandati: cosa vogliono da te? Vogliono sapere che alla fine xxxxxxxxxxxxxxxxx è xxxxxxxxxxxxxxxxx di xxxxxxxxxxxxx? O vogliono sapere soltanto se è una bella storia che vale la pena.

Che importa? Tanto ci andranno lo stesso.

Non cedere. 

Massì, chissenefrega, è Star Wars, potrebbero riempire interi film di dialoghi di soap e mostri di gomma e la gente riempirebbe le sale lo stesso, con le loro spade colorate da minchioni. Non ha senso farli belli, questi film. Questa gente non si merita niente.

Non cedere al lato oscuro.

Poi certo, la Disney per togliere Star Wars al suo oscuro padrone si è svenata, è ovvio che deve recuperare presto l'investimento. Un film all'anno e pedalare. Dove c'erano solo rottami nel deserto arriveranno i centri commerciali, apriranno i discount. J. J. Abrams non fa prigionieri.

Ma ha fatto un brutto film?

(Continua su +eventi!)
No, Maestro, non ha fatto un brutto film. Ha voluto tornare all'originale, quando ancora non c'erano soap incestuose e dinastie. C'era solo un robottino perso nel deserto con un messaggio. Quando tutte le trame e sottotrame erano solo accenni tra una sparatoria e un inseguimento, e anche la Forza era poco più di un McGuffin, un espediente buttato lì per far andare avanti la storia. Quando si passava continuamente da un'astronave a un'astronave più grossa, i piani si improvvisavano lì per lì e le astronavi si imparavano a pilotare nei secondi del conto alla rovescia. Quando il lato Fantasy non aveva ancora preso il sopravvento sul lato Pirati, quando la formula segreta era 10% Misticismo, 10% Soap e 80% Baraccone. Che poi Maestro, perché? Perché quando le saghe vanno avanti il Soap prevale sempre sul Baraccone? È colpa del pubblico nerd che vuole tutto chiaro, tutto spiegato, tutto sempre messo a lucido, una galassia rigorosamente catalogata e organizzata? Il primo film era così sporco, arrugginito, periferico.

E questo?

Questo è sporchissimo, addirittura è ambientato tra le rovine dei precedenti... ops! Forse ho detto troppo. Ma il tritarifiuti spaziale ha di nuovo un ruolo importante, e quando hai sete ti bevi pure la bava dei brontosauri. Tutto quello che già successo è già sbiadito nella leggenda. Si riparte dal mistero, lo spazio è di nuovo pieno di meravigliosi buchi. Ci sono di nuovo personaggi che non hanno idea di cosa sta per succedere, eroi per sbaglio o di malavoglia. Giovani sospesi tra il rifiuto e l'ammirazione per la vecchia guardia. Le maschere non ci proteggono da volti orribili, ma dalla paura di non essere all'altezza.

Anche J. J. ha paura. 

Puoi sentirlo?

Poteva deludere centinaia di milioni di spettatori. Abusare della loro fede. Consegnare un prodotto pieno di citazioni e senza vita.

È andata così, Maestro?

Apri gli occhi, e rispondi all'unica domanda.

Maestro io...

Tu?

mi sono divertito.

Questo era l'importante. 

Anche se...

Anche se...

Beh, non è che tutto fili proprio liscio, cioè... ma il Lato Oscuro non ha proprio niente di meglio da fare che costruire la stessa arma sempre più grossa? In tutti i film un po' più grossa? Che razza di modello di sviluppo è? Se analizzi la trama da un punto di vista...

Ti sei divertito?

Sì maestro.

Non dimenticartelo. Sei euro. Che ci fai oggi con sei euro?

Il popcorn però è un furto. Per tacere del 3d, che francamente...

Nessuno ti obbliga. Adesso metti gli orari. 

Star Wars: Episodio VII - Il Risveglio della Forza è al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalazzo (20:00, 21:00, 22:45); al Fiamma di Cuneo (21:00); al Multilanghe di Dogliani (20:45, 21:30); ai Portici di Fossano (18:30, 21:30); al Bertola di Mondovì (20:45); all'Italia di Saluzzo (21:30). 

La versione 3d, che secondo me non vale la pena, la potete trovare al Cinelandia di Borgo (19:50, 22:40) e all'Impero di Bra (20:00, 22:30). Che la Forza sia con Cuneo e la sua grande provincia. 

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Il film più spaventoso che guarderò quest'anno

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Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Dici che sei mia figlia e sei un'attrice, uhm, la seconda mi lascia molto perplessa.
Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un'enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All'inizio sembri soltanto un po' più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.

Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D'altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com'è fatto l'inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un'enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio - giardinieri, vigili urbani - che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?

D'altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l'illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all'infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?



Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Mia figlia d'accordo, ma un'attice?
Siamo seri, su.
Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema - una delle malattie più spaventose - si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore - ovviamente bravissima - perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po' troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un'attrice fallita - la sua migliore interpretazione, ah ah ah - no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po' imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell'esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.

Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.


Quant'era piccolo il Manitoba all'inizio
C'è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov'è? In Canada credo, fammi controllare - giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi "Columbia", ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.

Perché sto controllando la voce Columbia di wikipedia? (Continua su +eventi)

In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?
Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.
Ha sempre quel broncetto che - no, un momento. Diamo un'occhiata all'ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.
Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un'attrice la so ancora riconoscere che ti credi


Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film - il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest'anno - il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell'intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l'istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all'infinito. Dopo un po' la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.

È un po' come quando ti perdi su internet - esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino - beh, immagino che passino il tempo a discutere un po' come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos'altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.

Still Alice si sporge sul bordo dell'inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c'è niente di davvero interessante laggiù. L'aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet - uh, guarda, c'è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.



D'altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?
La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.
Scusate, è un periodo che sono così distratto - facciamo che se ne riparla domani.

(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).
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Il cecchino pasticcione

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American Sniper (Clint Eastwood, 2014)

Invece di sparare subito al bambino potresti tirare a un metro per dissuaderlo. Ci hai pensato anche solo un istante?
"Figliolo".
"Papà".
"Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi".
"E i cani pastore?"
"Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti".
"Quindi decisero di cambiare dieta?"
"Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro".
"E le pecore?"
"Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore".
"E i lupi?"
"Se li troviamo li facciamo fuori".
"E se non ce ne fossero più?"
"Li andiamo a cercare. Anche dall'altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine".
"Papà, ma quindi noi chi siamo?"
"Pecore non siamo".
"Allora siamo lupi o cani pastore?"
"Dipende, figliolo".
"Dipende da cosa?"
"Dal mirino del tuo fucile. Se c'è inquadrato qualcuno, è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara".
"Quindi noi... siamo i cani".
"Finché nessuno ci mette nel mirino".
"È complicato, papà".
"Tu spara, capirai col tempo".

Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l'aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l'ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l'ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d'accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d'astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c'è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d'élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d'acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant'anni continua a guardare dall'alto un po' tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d'un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.

Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l'asciuttezza e l'eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti guarda dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.

Lo si può apprezzare se non altro per l'onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c'erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un'ora). Evitare insomma che l'unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice "Amore tu non sei davvero qui" farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.

Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o...
Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l'eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.

La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l'autobiografia di Kyle, oltre a fare un po' acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan - specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c'è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all'orso: la stessa scena che ritroviamo, un po' prevedibilmente, all'inizio di American Sniper. Quando nell'agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l'uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall'Iraq. È un'idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.

Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà (continua su +eventi...) quando è a casa sembra il protagonista di un reality sulla sindrome post stress traumatico; quando è in Iraq si dedica a una caccia all’uomo ossessiva e tatticamente abbastanza disastrosa. Tutto il film si svolge in una strana bolla temporale: Kyle decide di arruolarsi dopo gli attentati alle ambasciate del ’98, ma non è pronto per il fronte fino alla guerra in Iraq (2003!) I “turni” all’inizio durano sei settimane, al termine delle quali un figlio appena nato può già camminare sulle sue gambe e discutere col padre (ma continuate pure a lamentarvi di Interstellar). I cattivi sono cattivi perché sono cattivi: e siccome ai buoni capita di tirare ai bambini, la cattiveria dei cattivi prevede l’uso del trapano contro altri bambini. Nessuno si domanda mai, nemmeno retoricamente, perché Kyle e i suoi compagni si trovino in Iraq per difendere gli USA da un’organizzazione terroristica basata tra Afganistan e Pakistan. L’Iraq peraltro è un enorme set di Call of Duty in cui l’esportazione massiccia di democrazia sembra non ottenere nessun tangibile effetto.

Su questo set, Chris Kyle si dimostra tiratore tanto magnifico quanto soldato pasticcione. Almeno una volta disobbedisce platealmente agli ordini; si improvvisa interrogatore e negoziatore e dirige commandos senza averne le competenze – e infatti combina disastri: quello che lo tormenta una volta a casa potrebbe essere stress post-traumatico, ma anche un banale senso di colpa per aver più volte trascinato i compagni a morire in situazioni inutilmente pericolose. Malgrado gli effetti sonori, i siparietti domestici finiscono per farlo assomigliare a un qualsiasi workahoolic durante la crisi del fine settimana: ora che faccio? chi sono? perché non sono in ufficio/in cantiere/in prima linea? In ogni caso la soluzione al suo male di vivere non è così complessa: la fine tragica e assurda di Kyle avrebbe potuto fornire un finale molto più inquietante, ma Eastwood preferisce congedarsi con serenità, riuscendo se non altro a ottenere il massimo di patriottismo con il minimo di retorica.

American Sniper è ovunque – copritevi le spalle. Al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Che pasticcio, mitica Amy!

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Gone Girl (David Fincher, 2014)

Io e te ci vogliamo bene e non ci lasceremo mai. Soprattutto non ci volteremo più le spalle, mai più. Mai più tempi morti - nessuno resterà in casa da solo quella mezz'oretta necessaria a organizzare un piano di fuga. Gli oggetti appuntiti piano piano scompariranno - non tutti in una volta, ciò potrebbe insospettirti. Le videocamere di sorveglianza faranno il resto. Buffo, ormai inquadrano più gli interni che gli esterni.
Le hai riconfigurate tu?
Hai fatto bene.

Caro Babbo Natale: non chiedo molto per cominciare il 2015. Forse mi basterebbe una mezz'ora da solo con qualcuno che lavori nella distribuzione italiana. Non gli chiederei le solite cose come "Perché avete tradotto Gone Girl con l'Amore bugiardo?", perché la risposta la so e se ci fossi io al posto suo per riempire due sale in più l'avrei chiamato Se mi tradisci scompaio, o Tutti pazzi per la Mitica Amy. Non gli chiederò semplicemente il motivo per cui l'uscita è stata ritardata quanto basta da permettere a tutti i fincherofili di guardarselo in una buona versione piratata e sottotitolata. Cose che capitano, si sa, inutile parlarne. Ma una cosa vorrei davvero saperla davvero ed è: perché proprio a Natale?

Come è potuto succedere, come ha potuto farsi strada tra panettoni pinguini draghi e orsacchiotti il film più sadico e anti-famiglia dell'anno? Un film che se ci porti la ragazza e le stringi la mano puoi misurare dalle sue pulsazioni quanti mesi vi restano ancora da sopportare assieme? Non si poteva veramente riempire la sala piccola con nient'altro - c'è in giro un bell'horror con un clown che insegue i bambini sugli scivoli al parco e se li mangia, non è già un po' più natalizio di Gone Girl?

HO CAMBIATO IDEA NON VOGLIO SAPERE COSA PENSI

A Natale sono due anni che cerco di recensire i film che escono nelle migliori sale della grande provincia di Cuneo. Non ero un grande esperto prima, e un centinaio di film non è che possa avermi cambiato più di tanto. Non credo nel frattempo di aver visto molte cose più crudeli e, beh, sì, divertenti di Gone Girl. Era da un po' che per motivi famigliari disertavo le sale, e all'inizio mi sembrava di intravedere una specie di tendenza: perlomeno nei primi mesi del 2013 erano ancora al cinema molti film americani di fine '12 con nulla in comune (drammatici, fantascienza, thriller), se non la caratteristica di deludere sistematicamente le attese dello spettatore. Quello che entrava nella sala per vedere Ryan Gosling motociclista in Come un tuono e poi si ritrovava tutto un altro film. O, per dire, un film di Soderbergh sulla deriva farmacologica USA che rapidamente diventava un thriller. Ma anche un bel prodotto di SF compatto come Looper nel secondo tempo si permetteva un cambio inusitato di marcia. Anche altri film più o meno riusciti, (Silver Linings Playbook), sembravano condividere lo stesso andamento un po' sbilenco: entravi per vedere un film d'amore e non era proprio esattamente un film d'amore; o un film di ragazzine discinte in spiaggia si rivelava qualcos'altro; il capitano Kirk invece di esplorare la galassia abbatteva elicotteri a mani nude neanche fosse Die Hard (mentre Die Hard si dava allo spionaggio), Refn contrabbandava esistenzialismi nordici in una confezione di action thailandese, e così via. Cominciavo a domandarmi se non fosse una naturale risposta alle sollecitazioni del mercato - se di fronte alla pressione della fiction televisiva, produttori e cineasti molto diversi tra loro non avessero deciso che una delle cose che lo schermo piatto a 40 pollici non può fare e il grande schermo sì è deludere platealmente le aspettative dello spettatore. Quello, e gli occhialini 3d.

Poi però è arrivato il 2014: un anno cinematograficamente molto più povero, mi è parso; ma mi sono perso tantissime cose. Nel 2014 di film traditori o sbilenchi non ne ho visti quasi più (anche il 3d mi pare declinante). A parte un caso eccezionale, tutt'altro che americano: Il capitale umano, venduto come un affresco sociale, che vira preso in altre direzioni. In seguito ho visto commedie che facevano le commedie, supereroi molto compresi nel loro ruolo di supereroi, film drammatici assolutamente drammatici, film action con tutti i numeri action al posto giusto, eccetera. A suo modo forse aveva qualcosa di sbilenco Interstellar, perlomeno nel modo in cui ha catturato e poi deluso molti spettatori. E poi... è arrivato Gone Girl (continua su +eventi, Buon Natale a tutti!)

Film straordinario, ennesima conferma del talento e della sicurezza di Fincher; eppure credo che nessuno si sognerebbe di definirlo perfetto. Gone Girl è tutto tranne che perfetto: è meravigliosamente sbilenco. Parte come un amarissimo film drammatico sull’inferno quotidiano della vita di coppia: qualcosa che Fincher potrebbe benissimo voler girare – dopotutto lo amiamo per due film assai poco fiction come Zodiac e The Social Network. Poi, quando malgrado le note eccessivamente dissonanti di Raznor ormai crediamo di aver capito che film ci troviamo davanti, Fincher ci butta all’aria la scacchiera esistenziale così verosimile e sofferta, si ricorda di essere anche il regista di Fight Club o Millennium; brandisce un fermacarte e comincia a colpirci alla gola. Un lato Bergman, un lato Hitchcock (in realtà Fincher non paga debiti a nessuno dei due, o quasi) – è così assurdo che è meraviglioso. A un certo punto Ben Affleck – mai così nella parte nel ruolo del vitellone riseppellitosi in provincia – si ritrova in un commissariato che non ha la patina dei commissariati al cinema. Non ha ancora chiamato l’avvocato perché è una cosa da film e lui ancora non ci crede, di essere in un film: così come non ci crederemmo noi al suo posto. “Mi sembra di essere in una puntata di Law and Order”, ammette. Un’ora dopo il film gronderà sangue e Law and Order sembrerà Report al confronto. Ha un senso? Non saprei. Funziona, ma non so quanto sia replicabile. È curioso che un risultato così sbilanciato sia stato ottenuto da un romanzo che aveva una sua simmetria; tanto più che a tradire il romanzo è stata la sua stessa autrice, Gillian Flynn; che forse è riuscita a prendersi la libertà che ad altri riduttori non avrebbe concesso. Se il romanzo era già stato accusato di femminismocidio, il film scansa quasi tutti gli spunti per ristabilire un po’ di equilibrio tra la crudeltà sociopatica di Amy e l’imbecillità del marito. Allo spettatore non viene data nessuna possibilità di scegliere: Ben Affleck può avere tantissimi difetti ma è umano; mette su pancia ma se si impegna è in grado di imparare come ci si comporta nella società dello spettacolo; può aver reagito in modo violento ma non sembra capace di crimini preterintenzionali. Amy invece non è di questo mondo: quando irrompe in scena, è come se il film virasse in un bianco e nero RKO. Del resto la Mitica Amy è un’invenzione letteraria, la Flynn ce lo aveva spiegato subito; la proiezione patologica di tutti i ragazzini dei romanzi per ragazzini e delle redattrici di femminili. È ovvio e geniale che il suo rigoroso e pianificato calendario di impegni (che fino a un certo punto include il suicidio) evapori al primo contatto con una società non borghese. Tutto quello che avviene dopo sembra il sogno allucinato di un coniuge insoddisfatto che a tarda sera si immagina cosa accadrebbe se un giorno, un giorno qualsiasi, decidesse di prendere davvero quella porta. Gone Girl è un film che finge di parlarci sul serio e poi ci prende alla gola. Non so quanto mi sia piaciuto davvero. Ma non credo di aver visto molti film migliori quest’anno.  Buon Natale a tutti! Gone Girl oggi è al cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (16:40, 19:50, 22:50) e al Cinecittà di Savigliano (19:45, 22:15). Portateci il partner, ma non stringetegli la mano.
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Perché doppiare Frank?

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Frank
(Lenny Abrahamson, 2014)

Otto mesi di reclusione in campagna, torture psicologiche e cibo razionato, sessioni di 14 ore; cosa succederebbe oggi a un folle come Captain Beefheart, se infliggesse ai suoi musicisti le privazioni che portarono la Magic Band a realizzare nel 1968 l'acclamato e invendibile Trout Mask Replica? Se tra i giovani adepti del guru musicale di turno ce ne fosse uno con uno smartphone e tanta voglia di condividere qualsiasi stravaganza su twitter o facebook, come andrebbe a finire? Il guru diventerebbe più o meno famoso? E per i motivi giusti o quelli sbagliati? Ma esistono motivi giusti?

Frank è un bel film di Lenny Abrahamson che gravitando intorno all'eterno conflitto tra genio e mediocrità, successo e integrità, ispirazione e malattia mentale, si permette di dire un paio di cose niente affatto banali. L'omonimo protagonista è il leader di una band avantgarde che non toglie mai la testa da una inquietante maschera di cartapesta (ispirata al personaggio di un cabarettista inglese, Frank Sidebottom - il film era nato come un biopic su di lui, poi ha preso tutta un'altra strada). Sulla sua strada incontra Jon, giovane tastierista alla ricerca del proprio talento, che forse semplicemente non esiste. Amadeus? Pallottole su Broadway? Siamo da quelle parti, ma c'è qualcosa di nuovo: i social network, per esempio. Due mondi entrano in collisione: Frank è un fantasma della storia del rock, ispirato ad artisti schizoidi come Captain Beefheart o Daniel Johnston (anche se Fassbender gli presta un timbro vocale vagamente Jim-Morrisoniano). Jon è un giovane due-punto-zero; se lo prendono a coltellate non si difende ma si fa un video-selfie e lo posta immediatamente su youtube. Tra i due non potrà mai funzionare, o no? Andatelo a vedere.



Dove?

All'UCI di Moncalieri (15:25, 20:10, 22:35; ma cominciano sempre molto in ritardo).

Uh, lontano. In lingua originale, almeno? Perché è un film dove Fassbender recita in una maschera di cartapesta, passando da un momento all'altro dal semplice dialogo al canto. Quindi, insomma, in lingua originale avrebbe più senso...

No.

C'è solo a Moncalieri ed è doppiato.

Seh, vabbe', chi voglio prendere in giro... (continua su +eventi!) Probabilmente è inutile lamentarsi – perlomeno, saranno dieci anni che ci lamentiamo – io a questo punto preferirei parlarne con qualcuno che ci lavora davvero, nella distribuzione, qualcuno che davvero sa come funzionano le cose. Perché non ne faccio mica una questione di integrità artistica, santo cielo, io se Interstellar esce il sei novembre in tutto il mondo non ho nessuna difficoltà a vedermi Interstellar doppiato. Ma anche se gli cambiassero il titolo, cosa vuoi che freghi a me. Mi dici che se lo intitoli Amore e Buchi Neri ci riempi dieci sale in più? Anche solo cinque sale in più? Ma figurati, per salvare la nobile industria del cinematografo puoi intitolarlo anche Se mi cucini ancora polenta io cambio galassia, mi farò una risata cogli amici su facebook ma poi ci vado lo stesso


L’originale Frank Sidebottom (persino più inquietante).
Ma me lo spiegate che soldi intendete fare con un film di nicchia come Frank, distribuendolo doppiato non solo a sei mesi dalla sua uscita in patria (non ci sarebbe niente di male), non solo quattro mesi dopo che lo abbiamo visto al Biografilm Festival di Bologna, ma due mesi dopo che è stato reso disponibile on line in Gran Bretagna? A quel punto è chiaro che cominceranno a circolare copie piratate perfette. È chiaro che qualcuno si prenderà la briga di sottotitolarle. E quindi, insomma, qual è il senso di uscire a novembre con Frank senza neanche farci sentire Fassbender che mugugna sotto la maschera? Che pubblico avete in mente, esattamente? Quelli che erano venuti per vedere De Sica nella sala di fianco e non hanno trovato poltrone libere? Perché quelli che invece avevano sentito parlare di Frank a questo punto l’hanno già visto anche due o tre volte comodi comodi a casa loro, risparmiando pure sette euro. Li vogliamo biasimare?
 Sul serio: vorrei parlarci, con qualcuno che questi problemi se li pone di mestiere, e chiedergli se davvero siamo messi così male – va bene la crisi, ma gli studenti universitari in aperitivo dalle sette alle dieci, possibile che non ce li avessero sette-otto euro per vedersi Frank fresco, appena uscito? Vogliamo provare davvero a scucirglieli? Un film del genere, che tra le altre cose è un manifesto dello snobismo, sembra fatto apposta per attirare i puristi della versione originale e allontanare tutti gli altri. Se non lo hai capito, probabilmente non lo hai visto. E pazienza. Ma vuoi provare almeno a venderlo? Non dovrebbe essere il tuo lavoro? Boh. 
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Dialogo tra Leopardi e uno spettatore

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Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014).

"Signor Conte, come va?"
"Male, illustrissimo, e voi?"
"Non c'è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito".
"Sì, al mio solito".
"Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa".
"Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana..."
"Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d'oggi magari un chirurgo... perdonatemi l'impertinenza..."
"Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni".
"Beh, magari potrebbe aiutarla con quella... quella gobba, insomma".
"Gobba?"
"Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama".
"Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui".
"Per forza, l'avete sulla destra... o non era la sinistra?"
"Vi sentite bene, illustrissimo?"
"Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia".
"Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero..."
"Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell'equilibrio nel discernimento..."
"...e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie".
"Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?"
"Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo".
"Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo".
"Ah no?"
"No".
"E di cosa stiamo parlando allora?"
"Di un film".
"Ovvero?"
"Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna... hanno fatto un film su di voi, signor conte".
"Sulle mie opere?"
"Su di voi".
"Ahi".

"Capite insomma il problema".
"Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?"
"Eh, tante cose... per esempio, quando voi componete l'Infinito".
"Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell'idea del vago, dell'indefinito, che io stavo cercando di..."
"Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l'Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l'infinito".
"E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?"
"Più o meno è così - salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona".
"Ah. E lui... com'è?"
"Bravo, bravo, un po' sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po', ehm..."
"A me?"
"A Foscolo".
"Eh, beh, naturale. E sulle spalle..."
"Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film".
"Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo... come si chiamava?"
"Niccolò Tommaseo".
"...si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?"
"Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l'inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto".
"E Petrarca?"
"Petrarca è out".
"Aut?"
"Out, fuori, finito, trionfo dell'oblio".
"Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI".

Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? (Se ne discute su +eventi). Premesso che qualcuno prima o poi ci avrebbe provato, e che difficilmente avrebbe saputo fare qualcosa di meglio di Martone; l’intrepido Martone che con le sue spericolate ellissi e i suoi arditi anacronismi è l’unico che tenti di darci un’immagine dell’Ottocento che non puzzi lontano dieci miglia di fiction della Rai; che dunque insomma dobbiamo dirci fortunati che l’idea sia venuta a lui, e che Elio Germano si sia reso disponibile. Ma visto il risultato, pur coraggioso, non banale, senz’altro più cinematografico che televisivo, rimane la domanda: si poteva fare un film biografico su Leopardi? Un poeta che, finché ha vissuto, ha ripetutamente pregato i lettori di non giudicarlo per le proprie sofferenze e deformità, ma per le sue idee: può diventare l’oggetto di un film che non si concentri proprio sulle sue vistose deformità che per forza di cose ruberanno la scena alle sue idee? “Demolite le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che attaccarvi alle mie malattie“, scrive il conte in una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di letteratura per il liceo. Nel film, la frase diventa un grido che Leopardi prorompe chino su un bastone, in una gelateria, davanti a due parrucconi imbarazzati. Ci stiamo imbarazzando anche noi, certe cose un conto è scriverle in una lettera, un conto è gridarle in un luogo pubblico. D’altro canto: che altro poteva fare Martone? Rimuovere la gobba?



Forse sì. Perlomeno, se chiedete a me, io avrei lavorato di più sulle Operette morali – magari con un po’ di computergrafica: siparietti con mummie, gnomi e folletti, Atlante ed Ercole che si palleggiano il pianeta Terra, Cristoforo Colombo che ragiona con Gutierrez, il Sole con Copernico, la Moda e la Morte. Non è che Martone non ci provi, scolpendo nel fango millenario una Natura Matrigna o giocando sulle potenzialità horror di A Silvia. Ma alla fine la gobba si ruba il film, non poteva che andare a finire così. Magari Martone la considera un correlato oggettivo del disagio esistenziale, della solitudine dell’intellettuale, dell’insalubrità del milieu culturale italiano, e di chissà cos’altro; fatto sta che invece di girare un film sui pensieri di Giacomo Leopardi, Martone ne ha fatto uno sui dolori di Giacomo Leopardi. Probabilmente era inevitabile, ma non è comunque un tradimento? Forse era necessario, ma perché insistere proprio su uno degli episodi più imbarazzanti di una vita breve e difficile, il non-affaire con Fanny-Aspasia? Il Passero solitario, no. Le ricordanze no. Martone poteva darci un po’ di Quiete dopo la tempesta o di Ultimo canto di Saffo, ma no! Dopo averci mostrato nel primo tempo il Leopardi diciottenne ribelle, il Leopardi che scappa di casa, Martone doveva per forza mostrarci il Leopardi trentenne innamorato, il Leopardi ridicolo. Ora non nego che ci sia qualcosa di autentico e universale in tutto questo – nel modo in cui la stessa passione che a diciott’anni ci rende nobili, dai trenta in poi ci rende patetici – ma ci vuole comunque una certa dose di crudeltà per andare a pescare, nelle migliaia di bei versi che il conte ci ha lasciato, proprio quella manciata di svenevoli che nessuno saprebbe più a leggere senza ridacchiare, dal Consalvo.

Oimè per sempre 
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, 
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
In tutto il viver mio?

“Ma siete sicuro che questi versi li ho scritti io?”

“Li avete scritti voi, Conte, sono nell’edizione critica dei Canti”.

“Me li ero dimenticati”.

“Ce li stavamo tutti dimenticando volentieri”.

“Ma c’è qualche operetta morale, almeno?”

“C’è il dialogo tra la Natura e l’Islandese”.

“Ecco, quello sì che me lo ricordo bene! E la Natura com’è? Una gigantessa?”

“Una sfinge di pietra, con, ehm…”

“Va bene, va bene”.

“…la voce di vostra madre”.

“Di mia madre? E che c’entra mia madre?”

“Eh, è una lunga storia, diciamo che tra le novità del secolo XX vi è anche l’approccio psicanalitico ai testi letterari”.

“E in cosa consisterebbe questo approccio psico…”

“In sostanza si ritiene che lo scrittore porti con sé per tutta la vita i traumi della propria infanzia”.

“Potrei per certi versi concordare, ma…”

“…e li rovesci nei suoi scritti. Quindi, caro signor conte, se voi avete parlato di una Natura Matrigna, il critico del secolo XX ha buon gioco a dimostrare che in realtà state parlando di vostra madre, e di quanto poco sia stata affettuosa con voi”.

“Ma che c’entra? E poi io non ho mai parlato di mia madre…”

“Suvvia, c’è quella pagina dello Zibaldone così eloquente…”

“Ma ne parlo in terza persona, e saranno poi affaracci miei, o no?”

“No purtroppo signor Conte, nel secolo XX il poeta non ha più panni che non si debbano lavare in pubblico da personale altamente specializzato”.

“Mi state dicendo che le mie considerazioni sull’impassibilità della Natura sono contrabbandate come sfoghi personali causati dal fatto che mia madre non mi spazzolava i capelli? Siete veramente così morbosi e cialtroni, nel XX?”

“Siamo già nel XXI, ma, come dire, perduriamo”.

“Ma non potevate farmi fare la fine di Petrarca? Preferirei”.


Poi c’è la musica, che alterna Apparat e Rossini, un po’ come servire cracker al formaggio e Saint Honoré – non è che non funzioni, ma tra qualche anno non credo che sarà la Saint Honoré a suonare datata. Infine c’è quel tentativo di inserire una tematica omoerotica che davvero non si capisce che senso abbia – si spera non quello di rendere il poeta più attuale, più interessante. Sono quegli strani inserti martoniani che fanno sì che a fine visione la perplessità vinca su ogni altra sensazione – come la scena in Noi credevamo in cui Crispi mostrava la bomba Orsini ai mafiosi; qui c’è una lunga calata in un bordello infernale che in un qualche modo si riallaccia al primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Verso la fine in effetti il Leopardi martoniano sembra sfumarsi e giustapporsi a quel Caccioppoli: un flaneur che per i peggio vichi gioca a rimpiattino con la morte. Germano è coraggioso e bravo, tutto il cast si dà da fare, il prodotto è ben confezionato, ma ne valeva la pena? Il giovane favoloso è ai Portici di Fossano e all’Aurora di Savigliano alle 21:15.
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And the wind cries: BOOOOORING!

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Jimi (All Is By My Side), John Ridley, 2013.

Preferisco ricordarvi così, che vi volevate bene.
James Marshall Hendrix detto Jimi è uno dei più grandi musicisti del secolo scorso. Se la chitarra elettrica è uno strumento che si può suonare in un centinaio di modi diversi, a lui ne dobbiamo più o meno una novantina. Cresciuto in una famiglia disagiata, a 14 anni imparò il riff di Peter Gunn su un ukulele con una corda sola. L'anno dopo si procurò uno strumento. Quattro anni dopo lo arrestano su una macchina rubata, anzi due. Un anno dopo è nell'esercito, paracadutista, vittima di molestie sessuali. Un anno dopo suonava per Little Richard. Cinque anni dopo era l'artista più pagato del mondo, dava fuoco alle chitarre, violentava l'inno nazionale. Un anno dopo era morto soffocato, e ne aveva 27. Scrivere e girare un film noioso su di lui sembrava impossibile. John Ridley ci è riuscito. Come diavolo ha fatto.

Certo, farsi negare dalla famiglia i diritti delle canzoni può aiutare. Ma non basta - ricordate quando Todd Haynes riuscì a fare un film su David Bowie usando tutte le canzoni tranne quelle di Bowie - ecco, non sarebbe sufficiente nemmeno eliminare le canzoni per rendere Jimi Henrix noioso. Ci vuole qualcosa di più. Bisogna fare in modo che ogni volta che il musicista apra la bocca, ne escano cose irrilevanti come "Uhm", "non saprei", "d'altronde e così" - finché dopo qualche dozzina di scambi del genere, con interlocutori altrettanto ispirati, non sorga sulle labbra del generoso André 3000 uno di quei memorabili aforismi che ragazzini cercavamo setacciando i volumi Arcana con le traduzioni dei testi, per poi tracciarli con l'uniposca su quegli zainetti che ci avrebbero reso persone interessanti. QUANDO IL POTERE DELL'AMORE VINCERA' SULL'AMORE DEL POTERE IL MONDO SARA' UN POSTO MIGLIORE, amen fratello. Nel film Hendrix se ne esce con questa cosa in una discussione con due Pantere nere - loro vogliono trasformarlo in un artista engagé, ma non hanno fatto i conti con il Potere dell'Incarto del Cioccolatino Perugina!
Ci sono poi le donne; Hendrix ne ebbe diverse, com'è abbastanza ovvio che capitasse a chitarristi di bella presenza. Chitarristi, belle ragazze, droghe, Swingin' London, adesso dimmi com'è possibile trasformare tutto questo in una storia noiosa. È appunto un'impresa per John Ridley. Lui sa che dietro a ogni uomo di successo ci sono una o due immense rompipalle che non fanno che prendersela perché lui non canta oppure canta troppo, non esce oppure esce troppo, non frequenta amici o ne frequenta troppi, non è in fondo tutto quello che abbiamo sempre sognato di vedere in un biopic su una delle più grandi rockstar degli anni Sessanta? Decine di minuti di groupies che si lamentano, sì, perdio! Niente sesso, solo lagne lagne e lagne, perché la nostra missione era rendere noiosa la vita di Jimi Hendrix, e Dio sa che ci siamo riusciti. In seguito potremmo girare un'ora e mezza di Adolf Hitler che si rilassa nella natura, perché no? La Noiosa e Pacifica Vita di Adolf, qualche premio in giro ce lo daranno senz'altro.

Ridley è riuscito persino ad attirare l'ira di un'ex convivente di Jimi, Kathy Etchingham, la cui versione cinematografica in effetti non fa che rompere l'anima, finché a un certo punto Henrix non la picchia a sangue in un locale. La Etchingham nega che sia mai successo; di Hendrix ha solo bei ricordi, era un ragazzo sensibile eccetera. Può anche darsi che si tratti di rimozione, e tuttavia la sua testimonianza è interessante perché il film sembrerebbe scritto da un punto di vista molto vicino al suo: una parrucchiera che ha l'opportunità di fidanzarsi con una rockstar un po' ruspante e scoprire che la cosa non ti svolta la domenica pomeriggio, anzi. E però poi quando senti la vera Etchingham dire: ma siete matti? Macché parrucchiera, mio padre possiede mezza Irlanda, e di sicuro non ero quel tipo di ragazza che dice "fanculo" in mezzo alla strada, ecco: a quel punto ti domandi: ma allora chi è la vera parrucchiera, John Ridley? Chi è che aveva la biografia di Jimi Hendrix a disposizione e invece di raccontare di quella volta che per battere gli Who nel loro campo diede fuoco a una chitarra, o di quando per sbaglio buttò un patrimonio di cocaina nel sifone di un lavabo, o il successo, o la deriva, o la morte tragica; invece di tutto questo, decidi di fargli dire "uhm", "gli uomini sono così", "i marziani ci salveranno" e raccontare di come nel '67 due tizie se lo litigassero?

In mezzo a tutto questo una manciata di scene che fanno ancora più rabbia, perché ti lasciano immaginare che film avrebbe potuto fare Ridley se la musica gli fosse interessata un po' di più dei sentimenti (e dei cartigli Perugina). Quando si fa invitare dal palco dei Cream, e ruba sventatamente la scena a Eric Clapton; e la storica cover di Sgt Pepper, in cui André 3000 può finalmente scatenare su un palcoscenico il Jimi che si era preparato. In quei momenti scivolano via dalla sua faccia anche quegli assurdi tredici anni in più. Jimi: All by my side è all'Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30. Oppure potete guardare un po' di suoi video su youtube mentre litigate con la ragazza perché vuole essere accompagnata da Zara - che è più o meno la sensazione che voleva ricreare per voi John Ridley col suo film, grazie John Ridley.
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Only Lovers Left Awake

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Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, Jim Jarmusch, 2013).

I miei amici sono anemici, mi dici
Adam ed Eve sono vampiri da prima che fosse cool. Non saltano più al collo delle loro vittime, che volgarità - col cattivo sangue che circola oggigiorno, poi. E allora che fanno. Che fareste voi, se foste in circolazione da cinque o dieci secoli? Vi alzereste tardi, in ambienti intasati di cimeli, e cerchereste di ingannare l'ansia di (non)vivere collezionando altri dischi o libri che comunque conoscete a memoria.  Il sangue ve lo procurereste in ospedale, grazie a ematologi compiacenti e corruttibili. Vivreste in città decadenti o abbandonate, perché l'umanità vi interessa soltanto quando produce opere d'ingegno artigianali, e quindi ultimamente vi interessa pochissimo. Anche se alla fine è l'unica cosa che vi tiene in vita. Sempre un po' in ritardo coi tempi, analogici in un mondo digitale, e quindi perfettamente mimetizzabili sullo sfondo di qualche scena hipster o postrock. Mi ero quasi arrabbiato coi doppiatori quando ho sentito Tom "Loki" Hiddleston usare la vetusta parola "rocchettari", che, fidatevi, oltre il Raccordo Anulare non ha più cittadinanza. Poi però ho pensato che se fossi un vampiro non riuscirei sempre a svecchiare il mio lessico in modo tempestivo ed efficace: malgrado gli sforzi qualcosa mi sfuggirebbe sempre, come quello stetoscopio che tengo nel taschino per sembrare un dottore, salvo che nessun dottore ne usa più uno simile da quarant'anni.

È difficile non immaginare anche Jarmusch da qualche parte sullo sfondo, dietro a un paio di occhiali neri, mentre invia messaggi onirici alle sue creature. Un Jarmusch notturno e recluso, che continua a perseguire progetti artistici economicamente suicidi - ormai fa un film ogni quattro anni, l'ultimo non l'ha visto nessuno, e probabilmente a lui sta bene così. Gli anni in cui cominciava a bussare alle porte dei produttori con un copione di vampiri erano quelli in cui al cinema trionfava la saga di Twilight - un concept di vampiro ricco e glitterato, su misura per l'adolescente emo-ma-non-troppo. Naturalmente quelli di Jarmusch non hanno niente a che fare con questi vampiri industriali: siamo più dalle parti dell'Addiction di Ferrara. Più che pensati per gli adolescenti, sembrano pensati da un adolescente: drogati, saggissimi, coltissimi, e tuttavia la loro saggezza consiste nello stroncare l'umanità che li ha delusi; tutta la loro cultura si esaurisce in uno snocciolare i nomi di un manuale del liceo; Shakespeare, Marlowe, Byron, Shelley, Tesla, Einstein, e pensate un po': Fibonacci.

I veri vampiri, secondo me, dai feticci culturali si tengono lontani come dal sangue infetto. Viceversa, se c’è qualche poeta sconosciuto, mal pubblicato, qualcuno che aveva tutte le carte in regola ma non ce l’ha fatta, ecco: probabilmente i veri vampiri leggono solo quelli. Se il vero autore dell’Amleto fosse in vita, probabilmente guarderebbe con disprezzo alla fan-base della sua opera più famosa; pensano tutti che sia un capolavoro ma è un mostro, ho messo insieme due canovacci diversi e volevo rilavorarci sopra ma la compagnia non me ne diede il tempo, ma sul serio preferite quel brogliaccio ai miei Sonetti?


La sorellina è quella solare e un po’ pazza.

Jarmusch s’intende molto più di musica, e si sente. A sessant’anni compiuti, continua a riempire i film delle sue canzoni preferite del momento, con la stessa ansia del ragazzino che ti ha preparato una cassetta che devi assolutamente sentire e ti cambierà la vita – come la Coppola ma con molto più gusto, per nostra fortuna. E visto che siamo tra pochi intimi, può anche farci assistere a un concerto di una meravigliosa cantante post-rai libanese – purché non lo diciamo troppo in giro, sennò poi diventa famosa.

I suoi vampiri non sono tutti adolescenti perpetui come Adam: Eve per esempio è molto più vitale; probabilmente è stata morsa in una fase più matura. In effetti Tilda Swinton non mi è mai sembrata così allegra: in un anno di travestimenti spericolati (Snowpiercer, Budapest Hotel) non sorprende che quello da vampiro le risulti il più congeniale. E tuttavia il film assomiglia più ad Adam, condannato a un’eternità di depressione e pensieri suicidi. Il risultato è memorabile, anche se un po’ soporifero – chiedo scusa, ma mi ero mangiato una pizza. Sono umano, lo so, che vergogna.

Solo gli amanti sopravvivono (ma l’originale è ambiguo: si può leggere anche “Soli amanti sopravvissuti”) è ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15. Non fa paura.
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Chi ha più voglia di un pornoVonTrier?

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Nymphomaniac I, (Lars Von Trier, 2013)

Che senso ha buttare via la religione e tenersi il senso di colpa? Se lo chiede il timido Seligman, all'inizio della lunga conversazione con la signora che ha trovato sanguinante in un vicolo. Dice di chiamarsi Joe e di essere, dall'infanzia, irredimibilmente cattiva. Ninfomaniaca, addirittura. Ma cos'è questa ninfomania?

Finalmente al cinema un treno regionale brutto come quelli veri!
Questa è pornografia!
Non è nemmeno una malattia. Lo sapevate? Dal 1992 l'Organizzazione Mondiale della Sanità non la riconosce più come tale; tre anni più tardi è stata cancellata dal quarto volume del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che preferisce parlare di "Ipersessualità", sia maschile che femminile. Anche su quest'ultima non c'è un vero consenso: è un disturbo ossessivo-compulsivo? Una dipendenza? Negli USA esistono i Sessuomani Anonimi, con programmi di recupero modellati su quelli degli alcolisti, perlomeno nelle serie tv e nei romanzi di Palahniuk: da noi no, credo, ma non me ne intendo.

Probabilmente neanche Lars Von Trier, che finalmente ha fatto dono al mondo del suo film porno-d'autore. Come ricorda l'ottimo Bernocchi, l'idea di girare un porno gli frulla in testa da tantissimo tempo - forse fin da quando lo conosciamo, i tempi delle Onde del destino e di Dogma. Già allora la buttava lì, forse per ravvivare un po' il gelido imbarazzo delle sue conferenze stampa: e poi sapete che c'è? una volta o l'altra faccio un porno. Certo, perché no. Ora, non voglio dire che a metà Novanta fossimo verginelli appena usciti dal collegio: i miei ricordi sono vividi ancorché un po' sgranati, come le vhs troppo videonoleggiate. Magari ci sono altri motivi per cui quella che nel 1996 poteva sembrarci una grande idea, avanguardistica e iconoclasta, oggi ci lascia un po' più che perplessi: sgomenti. Dite la verità, dai: voi come l'avete vissuta la notizia: "sta per uscire nelle sale un film di cinque ore di Von Trier con scene di sesso esplicito tra controfigure di attori famosi"? Per me è stato più o meno quando mi avvisano che devo pagare una tassa in più: buongiorno, siamo l'Ente Preposto alla Aggiornamento Culturale e le notifichiamo che ci deve cinque ore di vita: cinque ore che passerà guardando coiti altrui ripresi senza entusiasmo da un regista tormentato e depresso. Così impara a farsi piacere Dogville, Manderley addirittura. No, per dire che io sono uno di quelli che una volta Von Trier se lo andava a guardare volentieri. Qualcosa non va.

Potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, che alla fine ha il solo torto di restare fedele ai suoi temi, alle sue ossessioni eccetera (anche se mi sembra sempre meno rigoroso, sempre più incerto, stavolta per esempio fa il citazionista ma in modo un po' maldestro, a un certo punto toglie il colore per fare Bergman ma è come mettersi i baffi finti per fare Chaplin, cioè proprio non basta, capisci? In altri casi sembra voler fare il verso a Greenaway, è un auto-paragone impietoso). Dicevo, potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, ma di tutto quello che gli è successo intorno. Il concetto stesso di pornografia, che nel '95 era eversione, era l'anti-Hollywood, il realismo estremo, dogmatico, e oggi cos'è? la cosa più normale del mondo. Ne è passato di liquido sotto i ponti.

Per dire, alla fine degli anni '90 nella mia città (non Cuneo) c'erano ancora i cinema porno. Erano una specie di specialità locale, i turisti fotografavano le locandine sbianchettate. Ci andavano perlopiù vecchietti e persone in cerca di partner occasionali. Il consumo di pornografia era, per così dire, "sociale". Ma era uno spettacolo al tramonto. Trionfava il modello di consumatore completamente opposto, quello dei videonoleggi: un solitario manovratore di telecomando, nell'oscurità della propria cameretta. Da allora ci sono state due o tre rivoluzioni tecnologiche: il passaggio ai dvd; il peet-to-peer su internet; flash e i siti alla youtube. Un economista ci direbbe che la pornografia è diventata una commodity: come l'acqua potabile e la luce elettrica, anzi ancora più comoda, visto che per raggiungerla non dobbiamo nemmeno alzarci dalla sedia. Entrare in un videonoleggio o in un sex shop a metà Novanta richiedeva ben altra determinazione. Oggi guardare un porno è diventato maledettamente facile. Risultato? (scopritelo su +eventi!)

Diciamo subito che la paventata disintegrazione della società e della famiglia e della civiltà occidentale fin qui non c’è stata. Non vi è stata una particolare recrudescenza dei crimini sessuali, nemmeno tra i minori. Qualcuno afferma di soffrire di forme di dipendenza dalla pornografia – e però anche su questa sindrome gli specialisti litigano: forse non esiste. Senz’altro tra centinaia di milioni di utenti in tutto il mondo vi sarà chi ne consuma in modo patologico (ammesso che su internet abbia senso parlare ancora di consumo). Ma la maggior parte degli utenti, oggi, consulta pornografia per un tempo ridicolmente breve. Qualche mese fa un popolare sito porno ha messo on line le statistiche, da cui si evince che la visione di un utente medio duri più o meno tre minuti (ma è in lieve aumento nell’ultimo anno). Come dire che la maggior parte degli utenti trova la visione di un porno piacevole ma – dopo nel giro di pochi minuti – insostenibile.


Può darsi che sia sempre stato così: il fatto che le nostre modalità di fruizione in passato fossero più lente non significa che ci divertissimo di più. Pensiamo a quel che è successo coi quotidiani: una volta ne leggevamo di più, ma eravamo più informati? No: ci mettevamo semplicemente più tempo a trovare cose che ci piacessero. Era così con la musica (dedicavamo più ascolto agli album, o ai programmi radio) e probabilmente con la pornografia. Ci serviva più tempo per trovare la roba interessante. Quello che ha veramente accelerato i tempi è l’aumento vertiginoso della biblioteca a disposizione (per questo mi pare che oggi abbia più senso il verbo “consultare” che “consumare”) e il motore di ricerca. Non dobbiamo più accontentarci: se ci piacciono brune coi piedi lunghi, possiamo rapidamente digitare e ottenere “brune coi piedi lunghi”. Questo rende il nostro rapporto con la pornografia sempre più breve e, in fin dei conti, soddisfacente. Pensavamo che l’abbondanza di internet ci avrebbe portato a insane abbuffate, ma fin qui non è andata così; ormai ci basta qualche snack ogni tanto.

E proprio in quel momento, dalla Danimarca tormentata il dinosauro dogmatico si risveglia e ci fa sapere che ha pronto per noi un pranzo nuziale di cinque portate. Noi che ormai, al cinema, quando c’è una scena di sesso di più di trenta secondi, ridiamo dall’imbarazzo. Se vi ricordate cos’è successo con Adèle, e del modo in cui una stupenda scena di sesso era stata presentata come interminabile – otto minuti, vi rendete conto? Ormai in sala facciamo fatica a sostenere la visione di due molto graziose ragazze che fanno sesso per otto miserevoli minuti.


Pubblicità ingannevole.
Devono aver tratto simili conclusioni anche i produttori di Nymphomaniac che, non paghi di aver tagliato il film in due parti, hanno provvisoriamente accantonato un’altra ora di girato, che probabilmente riusciremo a recuperare in dvd. Il risultato com’è? Boh, non saprei. Davvero. Chi ha già visto la seconda parte ne parla abbastanza bene. Io ho visto solo la prima e non credo di poter già esprimere un giudizio sensato. Senz’altro non ha senso prendersela con Von Trier per l’antirealismo di molte scene, che sembrano progettate in laboratorio piuttosto che studiate dal vero. Il fatto che tra una situazione astratta e artificiale e l’altra faccia capolino un po’ di sesso molto crudo mi ha fatto realmente ricordare i vecchi porno con la trama, ma non so quanto l’effetto sia voluto: però se davvero è riuscito a citare Joe D’Amato fingendo di citare Bergman, complimenti. Mi domando se valga la pena di guardare un film di Von Trier così – anche dopo aver visto la seconda parte, quando uscirà, mi resterà la sensazione di essermi perso qualcosa (tipica anche questa di certe esperienze cinematografiche anni Ottanta, quando finalmente riuscivi a guardare Otto settimane e ti dicevi: tutto qui? Ma no, impossibile, avranno censurato un sacco di roba). Sarebbe più saggio probabilmente aspettare il dvd – e mentre scrivo questa cosa una voce dentro di me bisbiglia: non lo guarderai mai quel dvd, non troverai mai cinque ore di spazio per i tormenti sessuofobi o sessuomani di Lars Von Trier. Con tutte le cose interessanti che ci sono in giro, su internet e altrove.

Che altro dire. Fin qui è un film che ti fa apprezzare altri film, per contrasto. L’estasi libera dai sensi di colpa di Adèle. La leggerezza e l’attenzione al dettaglio con cui Ozon in Jeune et jolie affronta un tema molto simile; al confronto Von Trier sembra perso in una controriforma tutta sua. Stacy Martin è inquietante e molto a suo agio nel ruolo della giovane ninfomane (che nella seconda parte si evolverà in Charlotte Gainsbourg). Uma Thurman, contrariamente a quanto poteva farvi pensare il poster, non gode, anzi non fa sesso proprio; ma compare in uno sketch tragicomico che mi spinge a riflettere una volta ancora sul senso dell’umorismo di Lars Von Trier. Può darsi dopotutto che non ce l’abbia, allo stesso modo in cui Refn non vede i colori. Mettiamo che esista una sindrome che ti rende incapace di capire le barzellette. Passi la vita a sentire barzellette e a notare che la gente ride. A un certo punto provi anche tu a raccontarle, tanto più o meno le regole le capisci, la teoria è facile. In pratica racconti storie assurde e il pubblico prova disagio: sei un artista.

Nymphomaniac Volume I si può guardare al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30. È vietato soltanto ai minori di 14 anni.
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Il colpo all'italiana di Peppa Pig

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Peppa Pig, vacanze al sole e altre storie (il titolo originale non esiste perché si tratta di dieci normali puntate di Peppa Pig, dirette nel 2011 probabilmente da Phillip Hall e Joris van Hulzen).

"Anche in Italia avete la pizza?"
Ciao (oink), io sono Peppa Pig. Questo è il mio fratellino George (oink). Questa è Mamma Pig (oink). Questo è Papà Pig (OINK!) E questa è una rapina che i distributori italiani hanno deciso di infliggere ai vostri genitori, i quali pagheranno uno o due biglietti a prezzo pieno per guardarsi con voi dieci miei episodi inediti; gli stessi episodi che tra un mese saranno costretti a rivedere e riascoltare su Ray YoYo un giorno sì e un giorno no. Oink, se non è una porcata questa.

D'altro canto voi avete in media quattro anni, come me; e io (oink!) sono l'unico personaggio che riesce ad attirare la vostra attenzione per un'oretta scarsa. L'unico vero fenomeno di massa provenuto dal digitale terrestre. Vengo dalla Gran Bretagna, dove l'intrattenimento per bambini di età prescolare è una scienza, non un feudo parastatale, un ripiego per autori frustrati o un intermezzo tra le pubblicità dei pannolini. Per dire, i Teletubbies li ha creati la BBC. Ma io, oink! diciamolo, sono veramente meglio di quei quattro pupazzi telecomandati, che agli adulti sono sempre riusciti incomprensibili. Io invece riesco a piacere anche ai vostri genitori, per via della garbata ironia (oink!) dei miei autori. In inglese si dice "tongue-in-cheek", credo che significhi dire delle cose con la lingua irrigidita nella lingua per evitare di mettersi a ridere; ecco, Neville Astley, Mark Baker e Phillip Hall me li immagino così, sempre con la lingua nella guancia mentre mi fanno dire e fare cose normalissime, oink! ma anche molto divertenti. Nel mio mondo tutto è semplice come deve sembrare a un bambino di quattro anni. Gli adulti fanno qualche sciocchezza, nulla che non si possa risolvere con qualche risata. A volte guardano la tv. Guardano programmi noiosi, a base di patate e altri ortaggi che parlano e parlano. Io non sono così.

Io sono la rivincita dell'animazione 2d, dopo anni in cui qualsiasi cartone anche minuscolo doveva avere una computer-grafica tridimensionale. Migliaia di brutti cartoni con svolazzamenti di camera gratuiti e giochi di luce e di ombra che aumentano il realismo dove non se ne sente alcun bisogno, ma il più delle volte fanno sembrare i personaggi finti come robot di plastica in un mondo astratto senza un granello di polvere - non troppo a monte della valle perturbante. Io invece sono 2d e me ne vanto, oink! Sono piatta come nei vostri disegni; così piatta che mi hanno disegnato gli occhi sullo stesso lato della testa, il che ha reso un po' problematico il merchandising (diciamolo, i miei pupazzi sono veramente brutti). Ma forse quando mi sbozzarono non avevano in mente l'affare da milioni di sterline che sarei diventata. Ho persino un parco a tema, come Topolino, ma nell'Hampshire. Ora sapete dove volete andare in vacanza, oink! ditelo a mamma e papà.

Io invece sono venuta in Italia, come scoprirete al cinema... (o su piueventi, dove continua...) Ho imparato che anche voi mangiate la pizza, che avete macchine più piccole e buffe, che i vostri carabinieri sono molto gentili e sempre pronti a inseguire mio papà; non perché guida sempre sul lato sbagliato (papà pasticcione!), ma per rendermi l’orsacchiotto Teddy, che perdo dappertutto. Mi sono vista sulla prima pagina di Vanity Fair Italia, ho letto il pezzo che mi ha dedicato Gramellini – è a quel punto che ho capito di essere diventata mainstream anche in Italia. Anche se voi e i vostri genitori mi seguivate quando ero ancora di nicchia, certo. All’inizio su Rai YoYo ero una striscia tra tante: dieci minuti tra Bob Aggiustatutto e Sam il Pompiere. Poi mi sono mangiata Bob, mi sono mangiata Sam, adesso all’ora di cena c’è una cosa che la signorina presentatrice chiama “scorpacciata” e consta di un’ora e mezza di Peppa Pig show. Peccato che i miei disegnatori non siano stati molto prolifici – appena quattro stagioni da 52 episodi, di cui una inedita in Italia fino a un anno fa. Quando la signorina l’estate scorsa cominciò a promettere “novità a casa di Peppa”, nei vostri genitori nacque un barlume di speranza: arrivano puntate nuove! Le vecchie le sapevano a memoria. Ormai in casa si comunicava mediante citazioni dei miei episodi: non è affatto divertente! ora sono molto rotto. Bleah! Sa di crema pasticcera e di calzini sporchi. Sono uno splendido cigno, oink! Il passero fa bau, il cane fa cip, e così via. Questa infinita litania forse era giunta a termine.

A settembre arrivò soltanto mezza stagione – ma in tripla versione: italiano, inglese con la voce narrante in italiano, inglese. Una bella idea per familiarizzare con la musicalità di una lingua straniera, nonché per allungare il brodo. Nel giro di una settimana anche i nuovi episodi erano stati metabolizzati e memorizzati. Nel frattempo si avvicinava Natale, e io dilagavo negli spot: compra le mie figurine! la mia casetta! la mia automobile! la mia nave! il mio orsetto! il cd delle mie canzoni, così i tuoi genitori potranno ascoltarmi anche in macchina, lo sai, non vedono l’ora, oink! E proprio quando il regalo di Natale era stato ormai acquistato, l’annuncio fatale: bambini, sono anche al cinema! Dieci mie puntate a sette euro, dai, un affare!


In queste dieci puntate, a parte il viaggio in Italia, non succede niente di particolare. Una gita all’acquario con i miei e il mio pesciolino rosso. All’asilo assistiamo a un’altra lezione di quel mitomane di Nonno Coniglio. Pedro Pony perde gli occhiali, insomma, tutti i vecchi classici. Se siete degli esperti – e ormai lo siete – vi renderete conto che gli autori cominciavano a sentire la stanchezza: non inventano più nulla, giocano con le aspettative degli spettatori, rilanciando i vecchi tormentoni. Quella degli occhiali di Pedro è stata la mia ultima puntata. Non so quando tornerò. Girano strane voci, forse vogliono disegnarmi un po’ più grande, e insegnare a George qualche parola in più. Mah, non so se ne valga la pena. Forse sarebbe meglio voltar pagina, trovare qualche altro bel cartone – i miei ne hanno disegnato un altro ancora più divertente, il piccolo mondo di Ben e Holly. Certo, è per bambini un po’ più grandi, dai quattro anni agli otto. Bisogna avere voglia di crescere, non tutti ce l’hanno. Anche da voi.

In effetti ho il sospetto che in Italia mi segua molta gente che quattro anni non li ha più da un pezzo, con bambini o senza. Non per il piacere proibito che può dare a ogni età il rotolarsi nelle pozzanghere di fango. Temo che mi guardi un sacco di gente che con gli amici si vanta di guardare questo o quel film importante, di seguire questa o quella serie intricata e avvincente. E magari lo fanno davvero, ma faticano a capire la trama, hanno sempre avuto questo problema ma si vergognano a chiedere aiuto, è un segreto che si portano dentro da quando erano piccoli. Con me questo problema non c’è mai. Sono sul 43, se aspetti un po’ arrivo sempre. E se non hai ancora capito dove si è perso il Signor Dinosauro, puoi rivedere la stessa puntata tutte le volte che vuoi, finché non ne avrai penetrato, oink! il senso. Se poi non ce la fai, beh, puoi sempre saltare in una pozzanghera di fango. A me piace saltare in una pozzanghera di fango. A George piace saltare in una pozzanghera di fango. A tutti piace saltare in una pozzanghera di fango, oink! Peppa Pig.

Peppa Pig è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo oggi (sabato 18 gennaio) e domani (domenica 19) alle 15.00, alle 16.30 e alle 18.00. Se avete un bambino sotto i cinque anni, può essere l’occasione di entrare in un cinema prima che chiudano tutti. Ah, se tra 15 anni un’intera generazione si dedicherà a saltare nel fango, sapremo da dove è partita l’idea. Quanto al fango, ho il sospetto che ce ne sarà in abbondanza.
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La Brianza è un groppo in gola (che non va né su né giù)

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Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014)

Quanto costa una vita intera? Nulla: un'imprudenza, un sentiero di notte, una jeep che sbanda, un cellulare spento. Oppure cinquecentomila, ma facciamo anche settecento, novecento; un lotto in centro, un teatro, tutti i tuoi sogni di essere una persona migliore, la faccia che guarderai allo specchio da quel giorno; e un bacio. Per chi li pagheresti. Per la persona che ami o per quella che ti fa sentire più in colpa? C'è qualche differenza? A diciott'anni, forse c'è. A quaranta, a quaranta magari mi capirai. Ma non te lo auguro.

Del film ormai avete letto tutto. Avete fatto male, scordatevi tutto: le polemiche preconfezionate sulla Brianza, le tirate sulla crisi-dei-valori, sulla civiltà-del-denaro eccetera. Ognuno poi ha il diritto di vendere il proprio prodotto come può, ma Il capitale umano è un film più intelligente di quello che vi stanno presentando in tv e sui giornali. Che poi leghisti cari è troppo facile prendersela con Virzì: chi ha le palle per denunciare i pregiudizi coi quali William Shakespeare sfigurò i sani e operosi cittadini della Verona medievale? Il Capitale umano non parla di Brianza più di quanto parli di Connecticut o di qualsiasi altro distretto imborghesito del mondo; non demolisce la nostra generazione (senz'altro povera di valori e assetata di denaro) più di quanto non demolisca qualsiasi altra; a Romeo e Giulietta in fin dei conti è andata bene. Fossero invecchiati, avrebbero senz'altro costretto i figli a un matrimonio d'interesse. Se pensate di trovarvi davanti all'ennesimo romanzo di una grande famiglia spietata e decadente, potreste uscire delusi: non so se quanto Virzì Piccolo e Bruni ne siano consapevoli, ma il pescecane della finanza esce dal film meglio di quasi tutti i comprimari. Forse erano così convinti che bastasse metterlo a capotavola di consiglio d'amministrazione per renderlo il Cattivo; non hanno spinto il pedale del grottesco, e il risultato è un Gifuni mediamente stronzo, ma assolutamente umano.


Quel che è riuscito a fare Bentivoglio col suo bauscia, invece, ha del miracoloso. Sul suo personaggio il film rischiava tutto. Sappiamo che Virzì arriva al drammatico dalla commedia all'italiana - sappiamo anche che non è stato un movimento così brusco; che il dramma se lo portava dentro sin dal primo film. Ma da quel tipo di commedia Virzì portava un gusto grottesco dei personaggi, soprattutto secondari, che la sensibilità per le stratificazioni sociali e culturali rendeva spesso dei bozzetti: il professore de sinistra, il figlio di papà, il pancabbestia, eccetera. Potevamo pensare che passando al thriller Virzì avrebbe rinunciato ai bozzetti (già negli ultimi due film erano più rari, benché indimenticabili). Ci sembrava giusto. Anche se ci sarebbe dispiaciuto, perché diciamo la verità: a noi i bozzetti grotteschi di Virzì sono sempre piaciuti; sono uno dei motivi per cui Virzì ci piace più di tutti i suoi compatrioti, ormai, e forse questo non fa di noi dei veri cinefili ma non ce ne frega niente, noi daremmo dieci Jep Gambardella o come cavolo si chiama per un altro prof Iacovoni. Anche se all'estero nessuno se li filerà mai, i tuoi leghisti in cravatta verde e il Va' Pensiero che gli suona in tasca, i tuoi critici teatrali sudici o sociopatici. C'è un personaggio che sta in scena tre secondi tre - la sorella dello speculatore - ed è perfetta, noi amiamo Virzì per queste cose. Detto questo, non puoi pensare che uno stereotipo di bauscia possa reggere la prima mezz'ora di un thriller. In teoria, perlomeno. Poi ti ritrovi davanti a Bentivoglio, conciato com'è conciato. Ha a disposizione una paletta ristrettissima, deve parlare come Faso di Elio e le Storie Tese attraverso un ghigno congelato da caratterista di commediaccia sexy. Non puoi provare angoscia per un tizio così.

Non puoi? (continua su +eventi!)


È una scena che sembra ritagliata da un altro film, però è divertente e mi ha fatto tirare il fiato.
E invece ce la fai. Bentivoglio ce la fa. Non so come ne sia in grado, avrei voglia di tornare a rivederlo soltanto per capire come fa. Dopo venti minuti siamo in pena per lui. Lo vediamo andare a sbattere contro un muro che si è venduto e comprato da solo, e vorremmo fermarlo. Dopo un’altra ora di film lo odieremo. Ma sarà troppo tardi; per un attimo siamo stati dalla sua parte, abbiamo perso l’anima con lui. Che altro dire. Basterebbe Bentivoglio a chiudere la discussione, e invece è solo il preludio. Puoi credere anche solo per un’istante che Valeria Golino sia una psicoterapeuta della mutua? Puoi. Puoi empatizzare con Valeria Bruni Tedeschi che fa la ricca annoiata? Chi se lo sarebbe aspettato da lei, lo so, eppure puoi. È passata più di un’ora e gli unici che non ti hanno particolarmente colpito sono i giovani. Stanno sullo sfondo, fanno le cose antipatiche da giovani. Poi tocca a loro e ti si rovescia tutto il film – magari anche lo stomaco: capisci che tutti groppi in gola che ti hanno apparecchiato fin qui ti servivano solo a preparare quel vuoto in pancia che si prova a 18 quando fai una cazzata veramente grossa.  C’è di nuovo un Romeo e una Giulietta che si fottono la vita in 24 ore, e potrebbe, dovrebbe andare a finire altrettanto male.

Il Capitale umano è un thriller vero: un congegno spietato, realizzato senza rinunciare a frecciatine di costume che qualcun altro giudicherà non equilibrate. Io mi dichiaro vinto nel momento in cui Valeria Bruni Tedeschi prende il controllo e si scopa Nostra Signora dei Turchi – la buona vecchia commedia all’italiana, commerciale, industriale, che profana il cadavere del teatro sperimentale sussurrandogli Ti Perdono anch’io, lo sai cos’eri per me? Un buon sottofondo per pomiciare, niente più, il Fausto Papetti dei ricchi sofisticati. Un giorno forse se ne accorgeranno anche gli assessori leghisti. Si sveglieranno sul divano all’improvviso davanti a un vecchio Virzì su Rete4 e finalmente lo guarderanno, finalmente si renderanno conto che l’egemonia culturale di sinistra non ha mai avuto un accusatore altrettanto feroce. Filosofi, sindacalisti, insegnanti, radical-chic, no-global, non ne ha risparmiato uno solo: avreste dovuto adottarlo, coccolarlo, invitarlo alle sagre della polenta, ma veniva da Livorno e andava da Fazio, forse da lì l’equivoco. Il Capitale umano non contiene rivelazioni sconcertanti sulla crisi di valori dell’occidente, ma mostra a ogni adulto di che nodi sono fatti i cappi che ci stringiamo al collo: è l’insoddisfazione che ci fa commettere cazzate, le cazzate ci sprofondano nel senso di colpa, dal senso di colpa riemergiamo adulti e disponibili a pagare qualsiasi prezzo, a coprire qualsiasi crimine. Che altro dire. Tenete il cellulare sempre acceso, perdio, sempre, magari c’è qualcuno stanotte che ha bisogno esattamente di voi. Per quanto disperati possiate sembrare a voi stessi.

Il capitale umano è al Cityplex di Alba (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:35, 20:10, 22:35); all’Impero di Bra (18:20, 20:20, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30). Non ci sono molte scuse per non andarlo a vedere, a parte Peppa Pig.
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Il colpo grosso di David O. Russell

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American Hustle (David O. Russell, 2013).

All'inizio di tutto c'è Christian Bale alle prese col riporto più brutto che abbiate mai visto. Non può venirne a capo, non c'è abbastanza brillantina al mondo per sistemare quella cosa.  E invece sì. L'apparenza inganna. È il sottotitolo del film. In effetti potrebbe essere il sottotitolo di qualsiasi film; della cinematografia in generale. American Hustle dovrebbe essere un caper movie, quel genere che in italiano poteva anche chiamarsi "colpo grosso", prima che Umberto Smaila arrivasse a complicare la semantica delle cose. David O. Russell voleva girare un colpo grosso, un film di truffatori e truffati. Dopo il film romantico (Silver Lining Playbook), quello pugilistico (The Fighter), quello bislacco (I Heart Huckabees), quello di guerra (Three Kings). Cambiano gli ambienti ma le storie hanno qualcosa in comune: all'inizio c'è un protagonista che commette azioni discutibili. Un maggiore delle forze speciali che vuole rubare l'oro di Saddam, un ex pugile che fuma crack, questo tipo di cose. Più avanti la crisi, la riscoperta-dei-valori-veri, la redenzione. Il lieto fine, anche quando non fosse previsto, sarà imposto dalla produzione.

Dopo Christian Bale appare Amy Adams. È meravigliosa, e veste Gucci e Halston vintage per tutto il film. American Hustle è anche un period movie come vanno adesso, un film che tenta di evocare un'epoca determinata, con una precisione che sta diventando stucchevole tanto è maniacale. Per una curiosa coincidenza, è esattamente la stessa epoca (1978-1980) di Argo, oscar per il miglior film l'anno scorso. Stesse infinite variazioni sul marroncino che ritornano in No di Larraín - ambientato dieci anni più tardi, ma in Cile, dove il forno a micro-onde è ancora un oggetto inquietante. Quello di Larraín è il caso limite, visto che ha girato con la pellicola e gli strumenti dell'epoca, mescolando spot televisivi originali.  Negli altri casi è lecito domandarsi se costumisti e trovarobe non si stiano un po' allargando a spese di sceneggiatura e regia. Va a finire come con Mad Men, dopo un po' ti accorgi che t'interessa più l'arredamento della trama. Russell si adegua e decide, per definire i suoi personaggi, di affidarsi ai capelli: la parte di noi più deperibile, la più sacrificabile alle mode. Il grande truffatore ha un riporto impossibile: è chiara la metafora? Gli arrampicatori sociali invece si fanno ricci coi bigodini. Anche lo smalto per le unghie è estremamente simbolico. Non era una cattiva idea, ma Russell è preoccupato che ci sfugga e ci insiste finché non diventa ridondante.

In seguito arrivano Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. Non è passato neanche un anno da quando erano la coppia quadripolare di Silver Lining, ed eccoli non-protagonisti di lusso in un film in apparenza tanto diverso. Invece assomigliano ai vecchi personaggi: Cooper è un agente federale spiritato, con episodi maniacali che a volte sfociano in scoppi di violenza (la cocaina naturalmente gioca la sua parte) (continua su +eventi!) La Lawrence è la casalinga matta, sempre più credibile. È come se il vecchio film non volesse cedere del tutto lo spazio al nuovo. Una sensazione che accresce ancor di più il sospetto che questo non sia un vero caper movie; che il colpo grosso sia solo parte dello scenario, in un film dove lo scenario è ingombrante ma non è tutto. A Russell non interessa davvero il meccanismo della truffa, il trucco da preparare nei dettagli, il trabocchetto da tendere allo spettatore (e in effetti chi è cresciuto con la Stangata non ci casca: ma non ha davvero tanta importanza). A Russell interessano i personaggi, in carne e ossa e peli e unghie e soprattutto sentimenti. Ci tiene tanto ai sentimenti. Spero che ci teniate anche voi, perché Russell con la scusa del colpo grosso vuole provare di nuovo a raccontarvi una storia d'amore e redenzione.

Se invece le storie d'amore tra personaggi non simpaticissimi non sono il vostro forte, American Hustle rischia di lasciarvi con l'amaro in bocca. Non c'è truffatore repellente che non possa redimersi, non c'è spogliarellista in carriera che non possa darci lezioni di integrità sentimentale. L'importante è trovare amici che ci sappiano scaldare al fuoco del loro affetto e della loro rettitudine. Pur di trovarli Russell è ben disposto a violentare la storia vera che sta raccontando, trasformando un sindaco colluso con la criminalità in un eroico difensore di orfani e vedove e lavoratori di ogni colore. Ora il punto non è tanto che il sindaco vero non fosse decisamente uno stinco di santo (trafficava narcotici e banconote false, robetta). Non sarebbe la prima volta che un criminale diventa un eroe sulla pellicola per esigenze narrative. Però poi arriva il momento in cui questo eroe ti porta in un casinò appena riaperto ad Atlantic City, e dopo averti spiegato com'è vitale per tutta la collettività multiculturale del New Jersey la legalizzazione del gioco d'azzardo, e quante cose belle e civiche si possono fare restaurando i vecchi casinò che sono un patrimonio culturale - dopo tutti questi bei discorsi - ti mostra un gruppo di persone in fondo alla sala e dice che prima o poi con quelli bisogna andarci a parlare. È la mafia di Miami.

Il sindaco piezz'e'core, per far marciare l'economia, deve invitare la mafia di Miami. E va bene, si vede che le cose stavano davvero così: per far funzionare le case da gioco ti serviva il know-how della mafia. Però Russell non è Scorsese, non riesce a fare del suo sindaco Carmine un personaggio complesso, un personaggio ambiguo. Il tizio continuerà a gironzolare per tutto il film spiegando quanto è onesto ed eroico e quante cose buone ha fatto per i suoi cittadini, e noi spettatori dovremmo crederci e dimenticare il fatto che ha invitato i mafiosi a fare affari nella sua città: dovremmo pure stare in pena per la sua sorte. È che a Russell interessano i sentimenti, solo i sentimenti; e se gli è scappato un minimo di affresco sociale è stato per sbaglio. Eppure sotto le scenografie e le musiche, sotto la tricologia e gli arredi, persino sotto la storia d'amore, c'è la traccia di un film impensabile in Italia: un film dove i politici sono onesti lavoratori perseguitati da folli magistrati, pardon, da agenti federali ubriachi di potere. Un film che Berlusconi si guarderebbe a rotazione tutte le sere e non è escluso che lo faccia - ha molto tempo libero adesso.

Alla fine di tutto c'è un gran senso di vuoto. Mi succede sempre così coi suoi film. Mentre li guardo mi diverto anche molto; mi commuovo, mi appassiono, provo tutti i sentimenti che Russell desidera che io provi. Poi si accendono le luci e non mi ricordo quasi più il film che ho visto. Ricordo Amy Adams; qualche vestito di Amy Adams; Bradley scamiciato come Moroder che balla un pezzo di Moroder; il sindaco bravo e buono che invita i mafiosi; il riporto impossibile di Christian Bale, tutto qui. Mi ha fregato di nuovo, David O. Russell. L'apparenza inganna - la gente crede a quello che vuole credere, e mentre lo guardavo volevo crederci. Mi sembrava proprio un film coi fiocchi, un vero colpo grosso. Ma forse il pollo ero io.

 American Hustle è al Cine4 di Alba (18:30, 21:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 17:15, 20:00, 22:45); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:45, 21:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30). 
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Il ritorno dell'uomo di neve (nazista!)

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Frozen - il regno di ghiaccio (Chris Buck, Jennifer Lee, 2013).

1943. Walt Disney sta vincendo la guerra, quella mondiale. Il suo documentario con inserti animati, Victory Through Air Power, ha convinto Roosvelt che la conquista dello spazio aereo è una necessità strategica; nel frattempo Paperino vinceva l'Oscar spernacchiando Hitler in Der's Fuehrer's Face. Anche se molti disegnatori sono impegnati a disegnare cartelloni di propaganda, Disney continua a pensare ai lungometraggi - magari se si spettezzasse la storia in più episodi, come in Saludos Amigos, si riuscirebbe a lavorare con team diversi, a riciclare un po' di materiale... Proprio in quel momento il produttore Samuel Goldwyn (sì, uno dei tre che aveva fornito il nome alla Metro-Goldwyn-Mayer, roar) gli si fa incontro con un'offerta irrifiutabile: un musical su Hans Christian Andersen. Idea perfetta: si potrebbero alternare spezzoni biografici filmati dal vero con attori in carne e ossa, e cartoon di animazione in stile Silly Symphonies, di cui almeno uno, Il brutto anatroccolo, è già pronto (ed è un capolavoro). Disney è entusiasta, eppure dopo qualche mese l'idea si arena. Perché?



1944. Adolf Hitler sta perdendo la guerra, quella dei cartoni animati. Dev'essere particolarmente difficile per lui ammettere la superiorità sul campo degli americani, quei mediocri combattenti (di questo il fuehrer è persuaso, tant'è che sulle Ardenne ordinerà di concentrare gli attacchi sulle truppe inglesi). D'altro canto è sempre l'uomo che si è squadrato i baffetti per somigliare più a Charlie Chaplin: il cinema americano ha un certo ascendente su di lui, e l'americano che più lo incanta è Walt Disney. E però al fondatore del Terzo Reich non è concesso di sciogliersi davanti a Fantasia: anche nel momento di massima commozione, non può non constatare l'enorme scarto tecnologico che separa le produzioni californiane da quelle dell'UFA nazionalizzata. Certo, l'Agfacolor ormai funziona, e costa meno del Technicolor - ma dove sono i capolavori? I musical? I lungometraggi animati? Sarà anche per la necessità di sostenere una guerra mondiale su tre fronti diversi, nel mentre che si massacrano milioni di civili, fatto sta che l'animazione tedesca è dieci anni in ritardo sui competitors d'oltreoceano: ci si arrangia con dei brevi film musicali o di propaganda.  Il meglio riuscito, Der Schneemann, è la storiella buffa e poetica di un pupazzo di neve che in una fredda notte prende vita e si nasconde in un frigorifero per vedere l'Estate, il trionfo dei colori - per poi squagliarsi nei prati con nietzscheano amor fati, mentre un coniglio rosicchia meditabondo la carota che fu il suo naso...



Nel frattempo in California Disney si sta concentrando sui Tre Caballeros, un film a episodi per il mercato latinoamericano in cui Paperino ballerà con Carmen Miranda: il progetto kolossal su Andersen è stato ormai abbandonato - alla fine Goldwyn lo produrrà da solo negli anni Cinquanta, coi balletti al posto dei cartoon. Forse la guerra era ancora lontana dall'essere vinta, dopotutto; forse i disegnatori in congedo erano ancora pochi. Forse. Oppure possiamo credere, come racconta la fiaba, che a bloccare il film fu proprio la Regina delle Nevi. La più gelida delle novelle di Andersen: gli sceneggiatori della Disney non riuscirono a venirne a capo. Nulla a che spartire con quella di Biancaneve, vanesia e trasformista, straordinariamente fotogenica. La Regina di Ghiaccio è fredda e impassibile; sequestra solo i bambini che intimamente la desiderano, e non li mangia; li custodisce intatti in un freezer a forma di castello. A rileggerla non sembra così impossibile da animare, la Regina: lo stesso Andersen, ormai consapevole della sua statura di mitologo, l'aveva concepita come "fiaba di fiabe", un vero e proprio lungometraggio di carta strutturato a episodi.

La Regina sovietica in effetti ha già qualcosa di meganoide
nell'espressione.
Nel 1957 ci riusciranno i sovietici, che a Berlino non avevano raccattato soltanto qualche ingegnere balistico utile per la corsa allo spazio, ma anche il brevetto dell'Agfacolor - subito ribattezzato Sovcolor. Snezhnaya koroleva, la Regina delle Nevi di Lev Atamanov, non è all'avanguardia come gli Sputnik, ma ha un merito immenso: è il film che convinse Hayao Miyazaki che i lungometraggi animati erano fattibili anche in Giappone. Finché il punto di riferimento era l'inarrivabile Disney, non c'era nulla a cui aggrapparsi: invece i russi, con le loro ingenuità, davano speranza. È un vecchio discorso. Grazie a Laika abbiamo avuto le stazioni orbitanti, grazie alla Regina Snezhnaya abbiamo avuto gli anime, e io un giorno su Cartoonito ho visto anche Hello Kitty nei panni di Gerda contro la Regina delle Nevi, ve lo giuro, non ne trovo traccia su internet, eppure esiste (a proposito, sfatiamo la leggenda che Hello Kitty non abbia la bocca: ce l'ha, ma l'apre solo se necessario: un modello per tutti i bambini). Quindi insomma la Regina delle Nevi si può fare. Non ha nulla di tecnicamente insormontabile o contenutisticamente scabroso. Però alla Disney non ci sono mai riusciti.


Elsa deve imparare a maneggiare il suo favoloso potere, dopodiché diventerà una fredda designer di ambienti asettici; Anna invece è solo solare e un po' pazza.
Eppure non hanno smesso di provarci. Soprattutto da quando un'altra principessa di Andersen, quella squamata, ha rimesso in piedi il carrozzone dopo i passi falsi di fine anni Ottanta. Alla Disney ci pensano da allora, ma com'è come non è, non sono mai riusciti a disneyzzare la fiaba del ghiaccio nel cuore. Ma perché? Cosa c'è di irriducibilmente non disneyano nella regina di ghiaccio? Non lo so. So per certo che quella storia mi dà un freddo tremendo. Le fiabe di Andersen non sono come tutte le altre fiabe. Se nella letteratura c'è un prima e un dopo Omero, nella fiaba c'è un prima e un dopo Andersen; gli antropologi dovrebbero rifletterci. Prima di lui c'è ancora la preistoria dei sentimenti: streghe che mangiano bambini e bambini che ammazzano streghe senza un retropensiero. Poi in pieno Biedermeier arriva questo scribacchino, e all'improvviso le fiabe parlano di noi: di come siamo invidiosi, gelosi, arrabbiati, di come ci sentiamo soli, di come ci aggiriamo nudi per la città facendo finta di niente mentre i bambini ridono. Quello che ci descrive Andersen non è più l'australopiteco davanti al fuoco; è l'homo burgensis che riattizza il caminetto attento a non sporcarsi di cenere la camicia. Da che tempo e tempo ci sono state regine malvagie, ma quella di Andersen è qualcosa di nuovo e forse insostenibile: è la depressione che ci aliena dai nostri amici di infanzia, il rovescio del sogno dell'eterna giovinezza: essere bambini per sempre significa non amare mai. Ma forse ai bambini è meglio raccontare storie più leggere.

Olaf. Gli piacciono gli abbracci. BAMBINI NON
FIDATEVI È UN NAZISTA TRAVESTITO!!1!
Il progetto Regina delle notti è passato da un cassetto disneyano all'altro per tutti gli anni Novanta. Ogni tanto un altro sceneggiatore alzava le mani: non è possibile farci un film. A un certo punto stavano per passare il progetto alla Pixar. Poi se lo sono ripresi. Poi dalla Pixar si sono presi anche John Lasseter, che negli ultimi anni ha pixarizzato la Disney. Non è soltanto una questione di computer-grafica, come chi ha visto Ralph Spaccatutto ben sa. È una questione di coraggio: la Pixar poteva permetterselo, la Disney doveva pensare ai bambini. Finché a un certo punto la Pixar ha iniziato a voltarsi indietro, dedicando prequel e sequel non sempre esaltanti ai suoi vecchi personaggi; mentre la Disney con Rapunzel e Ralph faceva passi enormi in un terreno insicuro. Ralph era uno dei film più belli dell'anno scorso, ma non so se lo farei vedere a un bambino. Frozen, in confronto, sembra molto più rassicurante - e in effetti lo è. Se non conosci la travagliatissima storia produttiva che ci sta dietro, e che comincia sul fronte della Seconda Guerra Mondiale, puoi scambiarlo per l'ennesimo film dove le principesse Disney si emancipano facendo molte faccette buffe e cantando mielosità che probabilmente in originale suonano meglio. Gli scenari sono meravigliosi, l'animazione è da brivido, dov'è il trucco? Che la Regina delle notti non c'è più. A un certo punto l'hanno fatta fuori, per sostituirla con una classica super-teenager che deve imparare a maneggiare i propri poteri. Non proprio una Winx, no, ma una Witch, diciamo. Insomma, sì, il film è indubbiamente molto bello, ma un maschietto non credo che ce lo porterei. L'adulto invece dovrebbe apprezzare particolarmente Olaf l'omino di neve, che nel suo numero musicale sogna di vedere l'estate. Quel pupazzo, anche lui così generoso di faccette buffe, è un omaggio al capolavoro dell'animazione nazista, lo Schneemann di Hans Fischerkoesen che moriva squagliandosi d'estasi in un prato fiorito. Questo è essere adulti: cedere all'amore e accettare la morte. Nel '44 non doveva essere difficile pensarci. Ma alla Disney non ci stanno, alla Disney vorrebbero tenersi i primi amorazzi delle ragazzine e il sogno d'infanzia perpetuo dei bambini: a costo di fornire il pupazzo di neve di una nuvoletta personale. La vera Regina delle Nevi non si sarebbe mai comportata così. Lei ti incontra un mattino mentre ancora giochi in cortile: ti riconosce tra mille; ti porta in un luogo lontano dove anche gli squilli di telefono degli amici ti suonano falsi: e là, solo là puoi essere un bambino per sempre.

Frozen è dappertutto e ci resterà per parecchio. In 2d lo trovate al Cine 4 di Alba (20:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:00, 17:30, 20:10, 22:35); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30); in 3d al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:20); al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30). Buon Natale a tutta Cuneo e provincia.
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La mafia è una pastarella al piombo

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La mafia uccide solo d'estate (Pierfrancesco "Pif" Diliberto, 2013)

Arturo è un bambino normale in una famiglia normale in una città con un problema che non è il traffico. Ogni tanto qualcuno muore ammazzato. Nel garage sottocasa, nella pasticceria sulla strada per la scuola, ogni tanto qualcuno cade in un lago di sangue e il motivo pare sempre lo stesso: le femmine. Soprattutto in estate i delitti passionali non guardano in faccia a nessuno: poliziotti, magistrati, giornalisti, persino i politici. Persino Arturo: anche per lui è venuto il momento di innamorarsi, anche se è solo un bambino e ha paura.


A quarantun anni (no, non li dimostra) Pif si carica in spalla una macchina da presa un po' più grande del solito, e il risultato è abbastanza sorprendente. Di solito chi passa al cinema dalla tv cerca di riprodurre sul grande schermo quello che gli spettatori conoscono già sul piccolo: peraltro di reporter prestati al cinema negli ultimi dieci anni ne abbiamo già visti parecchi; è una formula che può funzionare. Pif invece per l'occasione si ricorda di aver lavorato con Zeffirelli e Giordana, e prova a fare qualcosa di meno televisivo confinando sé stesso e la guest star Cristiana Capotondi nell'ultima mezz'ora, concentrando l'obiettivo sul vero eroe del film, il piccolo Arturo (Alex Bisconti, bravo). Una scelta insolitamente matura, e anche un po' temeraria - lavorare coi bambini è più difficile - che coincide con una precisa scelta narrativa: il forrestgumpismo. Un giorno bisognerà trovare una parola più bella per definirlo, ma nel frattempo ecco una definizione approssimativa:

Dicesi Forrest-Gumpismo la tendenza a rivisitare il passato recente in una collana di momenti topici, infilando a forza i personaggi in tutti gli avvenimenti storici rilevanti. In Italia ci sguazzano un po’ gli autori di noir, ma l’oggetto forrest-gumpista in assoluto è La meglio gioventù di Giordana, dove se due ex coniugi si danno un appuntamento durante gli anni Ottanta, dev'essere per forza la sera di Italia-Germania al Santiago Bernabeu con le comparse che ascoltano la telecronaca di Martellini alla radio, cioè, hai capito spettatore scemo? Siamo negli anni Ottanta! Rossi! Tardelli! Altobelli!

I forrestgumpisti italiani di solito vivono in centro: tutto deve succedere nello spazio di pochi isolati. Assistono a tutti gli episodi più importanti che stanno già sui libri di Storia (in questo caso tutti i delitti illustri da Boris Giuliano a Borsellino), senza capirci mai molto: spesso sono bambini o handicappati. L’importante è che abbia già capito tutto lo spettatore. Il forrestgumpismo ci porta a spasso per la Storia contemporanea come se fossimo in gita scolastica: le cose dobbiamo averle studiate già, ora si tratta di riviverle, di provare emozioni, per cui rieccoci a Capaci da spettatori: non si capisce niente, c’è solo fumo, sembra un terremoto, ecco: abbiamo avuto un po’ di paura, abbiamo “sentito” Capaci. Il forrestgumpismo al cinema funziona molto bene. Siamo tutti contenti quando qualcuno ci racconta una storia che conosciamo già, magari da un’angolazione diversa; quanta soddisfazione nel sapere già cosa succederà a un dato personaggio, ad es. Salvo Lima; nel saper riconoscere la strage di Capaci da una gag su un telecomando. Se poi il punto di vista è quello ingenuo e fiabesco di un bambino, chi oserà mai parlare male del tuo film, rimproverandoti qualche superficialità nel descrivere un fenomeno mafioso assai più ramificato e complesso, nel trasformare capoclan e stragisti in pagliacci (sempre meglio di glorificarli come eroi maudit, come si è fatto in tv) – ok, mi arrendo Pif, hai vinto tutto. Mettiamola così: non è un film sulla mafia, è un film sull’omertà, sul crescere in una città che finge di essere sana, e scoprire uno spavento alla volta che gli adulti hanno più paura di te.

Nell’ultima mezz’ora però accade qualcosa di diverso. Improvvisamente il piccolo Arturo si sveglia trasformato in Pif: il Pif che conosciamo, che 41 magari non li dimostra, ma neanche i venti che dovrebbe avere nel film. La trasformazione è improvvisa, pinocchiesca: Arturo non è davvero cresciuto. È solo diventato più grande, come Tom Hanks in un altro film; ma dorme ancora nello stesso lettino, ed è ancora bloccato nel suo amore elementare per Flora. Qui c’era un’idea meno rassicurante: crescere nella città della mafia significa compromettersi, e Arturo non ce la fa. Ci prova. Flora, lei, è cresciuta e lavora per i grandi vecchi, perché non provarci? C’è bisogno di giovani che portino idee fresche, che inquadrino i vecchi da angolature inedite, che scrivano i discorsi. Pif per un po’ ci prova. È quel momento tipico dei vent’anni, in cui “si fanno tante caz… sciocchezze”, per amore ma anche perché è sparito qualsiasi altro riferimento all’orizzonte, e non c’è più un prete o un giornalista a spiegarti cosa fare; il momento in cui giri la tua città con un curriculum in mano e ti senti soffocare. Una situazione molto più difficile da raccontare delle epifanie dell’infanzia, e che Pif racconta molto più in fretta, forse meno sicuro di sé come attore che come regista. Mi piacerebbe dirgli che ha torto, ma il film piacerà a tutti così. E davvero per un’opera prima non ci si può lamentare.

Un ultimo perfido appunto: un bambino trascinato dai genitori davanti a tutte le lapidi di tutti i martiri della mafia, secondo me, appena compie undici anni corre ad affiliarsi alla prima cosca che trova nel quartiere. Perlomeno, quel poco che ho capito di psicologia dei preadolescenti mi suggerisce ciò – poi magari mi sbaglio, eh. La mafia uccide solo d’estate è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20; 22:35), al Vittoria di Bra (16:15, 18:15, 20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) – ma da voi li fanno i bomboloni alla ricotta con le scaglie di cioccolato? M’è venuta la curiosità.
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Giovane, carina, molto occupata

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Giovane e bella (François Ozon, 2013).

Vi state sensibilizzando sull'odioso fenomeno della prostituzione minorile?
Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l'ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun'altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.

Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz'altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all'amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile.

Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro le sei dev’essere a casa.

L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).


Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.


Gonna give you some terrible thrills.

Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.

Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.
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L'amore non è mai stato così blu

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La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013; palma d'oro a Cannes).


Un giorno Zeus ed Era stavano litigando su chi traesse più piacere dall'atto sessuale, se l'uomo e la donna, quando ebbero un'idea: chiediamo a Tiresia, è l'unico che possa sapere come stanno le cose davvero, per via dei suoi trascorsi transessuali. Quando uccise una serpentella che copulava col suo partner, lo punimmo rinchiudendolo per sette anni in un corpo femminile: lui lo saprà chi dei due gode di più. E dicci quindi, Tiresia, quale orgasmo hai preferito?

Tiresia non usò mezzi termini: nove decimi dell'orgasmo spettano alla donna, punto. Maledetto Tiresia, hai svelato il nostro segreto! disse Era, e per punizione lo accecò. Così almeno non avrebbe fatto il regista. La vita di Adèle è il terzo film a tema lesbico che guardo in un mese (e non mi sto annoiando). Di tutti è il più sfacciato. Kechiche si è accomodato nell'esile storia a fumetti di Julie Maroh svuotandola dall'interno, suggendola come un'ostrica, senza fingere nessun rispetto per tematiche e personaggi. A capirlo bastano le primissime scene: siamo in un liceo, ragazzi e ragazze ripassano un romanzo di Marivaux che col fumetto non c'entra assolutamente nulla. Ma Kechiche ha già provato con la Schivata a sovrapporre la retorica fiorita del drammaturgo settecentesco francese ai silenzi impacciati dei liceali di banlieue. Marivaux ha scritto il Paesan rifatto, ha composto commedie in cui i servi fingono d'essere i padroni e viceversa; Marivaux racconta di oneste fanciulle di campagna che finiscono in città, abbandonate agli azzardi del caso e dell'amore. Kechiche è un cinquantenne etero il cui amore per la cultura francese è pari soltanto alla sua diffidenza per la spocchia degli ambienti culturali francesi. La fatica di crescere lesbiche nella Lille degli anni Novanta non è che gli interessi più di tanto, e non finge nemmeno d'interessarsene, questo è in fondo apprezzabile: Kechiche lo sa di essere un intruso in una storia che non lo riguarda, e gli piace. Per girare tre o quattro scene di sesso Kechiche reclude per settimane sul set due giovani attrici che all'inizio nemmeno si conoscono, e pretende che si masturbino a comando. La più grandicella è erede di due dinastie di produttori cinematografici francesi. Kechiche è un regista di origine tunisina che si è fatto da solo, e ora sul set ha il corpo di Léa Seydoux a sua disposizione. Se conosci tutti questi dettagli, quando vai a vedere la Vita di Adele hai paura che non riuscirai a seguire la storia, che vedrai il riflesso del rancoroso paesan rifatto Kechiche in ogni occhio lucido d'attrice. Poi si spengono le luci, e scopri che c'è ben altro.

E però se davvero si è letto tutta La vie de Marianne per te,
a prescindere dalla scelta di genere, tu un po' gliela dovresti dare.
C'è che a un certo punto della lavorazione - molto presto - Kechiche deve essersi innamorato della 19enne Adèle Exarchopoulos. Ma parecchio. Una di quelle scuffie totali, che quando vai al liceo hai paura di morire per davvero, e poi per fortuna o disgrazia cresci. Un amore platonico nei limiti in cui può essere platonico il tizio che per mestiere ti ordina di leccare la tua collega su un set. Una passione senza vergogna, questa è la vita di Adèle: un film dove un regista ci mostra due ore e mezza di primi piani di una ragazza e non se ne vergogna. E poi sì, è complicato scoprire di essere lesbiche al liceo, ma... diomio avete visto com'è bella quando sorride? Adesso ve la rimostro. E la famiglia, eh, è un vero problema fare outing in famiglia, perché... ma che mi frega della famiglia, leggetevi il fumetto se vi frega di queste cose, ma guardate quand'è bella quando fa le facce stanche, è stanca perché le faccio rifare le stesse scene per ore e ore, il sindacato degli operatori è incazzatissimo e forse il film non uscirà mai, ma chissenefrega, io amo Adèle Exarchopoulos e credo dobbiate amarla anche voi: etero, gay, uomini, donne, sedetevi in poltrona e assistete all'abbacinante spettacolo di Adèle Exarchopoulos. Ve la faccio vedere che posa nuda. Ve la faccio vedere che fa sesso gay ed etero, il suo personaggio poi sostiene che l'etero le piace meno, ma a voi piacerà. Ve la faccio vedere tirata e nervosa per la festa col terrazzino degli amici intellos della sua fidanzata, gente che fa discorsi cioè troppo colti ("Schiele è morboso preferisco Klimt" "No vaffanculo Klimt è decorativo", e questa è gente che ha fatto l'Accademia di Beaux-Arts, Adèle si sente a disagio perché sa solo Marivaux a memoria). Ve la faccio vedere quando fa la maestra d'asilo, e adesso tenetevi forte, a un certo punto passa in prima elementare e per dettare alla lavagna si mette gli o c c h i a l i , ooooooooh, Adèle, ma sei proprio sicura della tua scelta di genere? Sicura sicura? Non è che semplicemente non hai ancora trovato quello giusto, che ne so, un magrebino che ti faccia ridere?

Il film che ridefinisce il concetto di "ripetizioni di filosofia"
Le lesbiche si sono incazzate? Le lesbiche avrebbero qualche diritto di essere incazzate, questa all'inizio era una storia militante. Julie Maroh ha iniziato a disegnarla a diciannove anni, con tutta l'intensità e l'ingenuità che ci si può mettere a 19 anni. La tragica educazione sentimentale gay è stata completamente colonizzata da un franco-tunisino di successo che continua a sentirsi a disagio quando va ai cocktail. Il deragliamento è così completo che alla fine è spettacolare in quanto tale: non andate a vedere La vita di Adèle per ricavarne informazioni sulla vita o sull'amore delle lesbiche, perché probabilmente esse non vivono né si amano come nel film. Andate a vederlo se vi va di innamorarvi di nuovo della ragazzina nell'ultimo banco in fondo, quella che non avete notato per tre anni e poi improvvisamente esiste solo lei. Andateci per sentire il sale delle sue lacrime su vecchie cicatrici dimenticate. Andateci per passare l'ultima mezz'ora a dirle Adèle, non far cazzate, non sarai mica scema come la protagonista del fumetto? Tu sei in carne e ossa, Adèle, all'amore si sopravvive. Per fortuna, o per disgrazia. La vita di Adele è al Fiamma di Cuneo alle 21. Dura tre ore; è vietato ai minori di 14 anni.
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Naomi nonna, no.

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Il sole, il mare, lo iodio, due palle così.
Two mothers (AKA Adore, Anne Fontaine, 2013).

Naomi Watts e Robin Wright sono amiche del cuore e vicine di casa. Abitano in un'Australia che sembra un'isola deserta, passano tutto il tempo in spiaggia a mettersi un sacco di crema e doposole e a prendere un sacco di sole. Il marito di Robin è a Sidney perché vuol far carriera. Il marito di Naomi Watts è morto. Naomi Watts e Robin Wright passano tutto il tempo assieme ai reciproci figli, due pezzi di surfisti australiani appena diciottenni. Siccome lo sanno tutti come andrà a finire - è il motivo per cui sono venuti al cinema - stasera doppio spettacolo milf! Robin e Naomi si fanno i figli a vicenda! - il preambolo dura soltanto mezz'ora. È comunque una mezz'ora leeeenta in cui Anne Fontaine non riesce a costruire una tensione erotica decente. Questo è imperdonabile - voglio dire, possiamo tutti sbagliare qualcosa nella vita, ma se hai Naomi Watts e Robin Wright e due pezzi di surfisti californiani diciottenni, e con un materiale del genere riesci lo stesso ad annoiare, c'è veramente qualcosa che non va. Non è così difficile, l'erotismo.

Non dovrebbe esserlo, perlomeno. Spiagge deserte, case tutte vetri, corpi giovani, corpi maturi ma ancora in forma, tabù da distruggere, qual è il problema? Perché tutto questo non funziona? (Continua su +eventi!) Tanta nostalgia per le zie e i nipotini di Le segrete esperienze di Luca e Fanny, quelle sì che erano serate interessanti. Dopo la prima mezz'ora di tuffi e sguardi, due castigatissime scene di sesso ci fanno capire che l'erotismo alla Fontaine non interessava proprio. Rimane il mistero: cosa le interessava? Non riusciamo ad affezionarci ai personaggi, sono figurine piatte quando non francamente antipatiche. Il sospetto di lesbismo che avrebbe dovuto aleggiare su tutta la storia viene liquidato a risatine, ahahah! Lesbiche noi? Ma sì una volta per tenerci in allenamento abbiamo limonato, ma questo non vuol certo dire che. Puoi trovare più coraggio e introspezione nei bigliettini delle ginnasiali. D'altro canto, se fossero lesbiche sarebbe un problema? Nel 2013 in Australia? Two mothers forse è degno di sopravvivere all'oblio perché fotografa l'istante in cui un tabù si svuota da dentro, e un tema che doveva sembrare morboso si rivela normale ai limiti della banalità. Non solo perché su internet abbiamo tutti visto cose un filo più spinte: ma quale ragazzino diciottenne non vorrebbe, potendo, farsi iniziare al sesso da Robin Wright o Naomi Watts? Per quale motivo Robin Wright o Naomi Watts dovrebbero resistere alle avances di due aitanti surfisti diciottenni? Sul serio esiste il tabù Non Giacerai con le Amiche di Famiglia e i Loro Figli? In Australia?

E ci rimane un'ora di film. Risolta la suspense sul "Come inizieranno?", non resta che chiedersi: come andrà a finire? Ovviamente i ragazzi troveranno compagne più giovani, in modi abbastanza prevedibili - e fermo restando che la prima Milf non si scorda mai. Verso la fine Naomi Watts diventa nonna, e se lo chiedete a me, non funziona, Naomi non è una granny, proprio no. E siamo al punto di partenza: forse sulla carta l'idea di avere una relazione con una persona che ti conosce sin da bambino potrebbe risultare morbosa... ma se questa persona ha le fattezze di Naomi, andiamo, chi è che non ci proverebbe con Naomi? Persino gli scimmioni alti otto metri non resistono a Naomi. Il finale poi, se qualcuno ha la pazienza di arrivarci, non è così scontato; e riscatta in parte con una bella immagine simbolica un racconto che non ha mai ingranato veramente. Peccato che a quanto pare nella versione italiana al cinema il finale sia stato tagliato - e a questo punto probabilmente del racconto originale di Doris Lessing non è rimasto niente. Two mothers è all'Aurora di Savigliano alle 21:15 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10. Io lo lascerei dove sta.
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Mamma e papà facevano sesso

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Anni felici (Daniele Luchetti, 2013)

I bambini ci guardavano. Una volta. D'estate, specialmente, non avevano molto altro da fare, e così erano sempre tra i piedi a osservarci. Per compleanno chiedevano cineprese e rullini. I bambini ci spiavano, sapevano tutto di noi. Chi stava scopando papà (non sempre era la mamma), chi stava baciando la mamma (non sempre era un amico di papà), ai bambini poi non è che fregasse un granché di tutta quella lussuria da adulti; ma era estate e non c'era molto altro da fare. In tv c'era un solo canale in bianco e nero e anche in spiaggia dopo pranzo per fare il bagno dovevi aspettare tre ore, e intanto la mamma dov'è? Mamma? Stai piangendo? Perché piangi? Vuoi papà? Vuoi divorziare? Vuoi che m'ammazzo? I bambini una volta erano un grosso problema.

Ora non è più così. Tante cose sono peggiorate, ma almeno adesso i bambini di noi se ne fottono. E meno male. Se avessi un figlio e da grande facesse un film su di me, mi mostrerebbe sempre seduto da qualche parte a ditaleggiare su un arnese digitale ridicolo. Ma non succederà, perché se avessi un figlio non mi starebbe guardando: lui per primo avrebbe di meglio da fare, ad esempio ditaleggiare su un arnese digitale ridicolo. Viva i nintendo, viva i cellulari, i tablet, viva tutta l'oggettistica che ha conquistato l'attenzione delle giovani generazioni che non si sa bene come cresceranno, forse con deficit di attenzione irrecuperabili, ma sicuramente non faranno più film il cui messaggio, se dobbiamo proprio sintetizzarlo in una frase, è PAPA' GUARDAMI MAMMA GUARDAMI. Luchetti invece ha fatto un film così e non c'è niente di male, basta che nessuno da qui in poi ne faccia più.

Chissà per quanti anni se l’è tenuta in serbo, la storia della vita. Purtroppo quando per anni ti tieni una storia, va a finire che un bel giorno decidi che è l’ora – e solo in quel momento ti accorgi che magari non è un granché. Forse hai fatto scappare il momento giusto, è passato ma avevi ancora paura. Forse non è mai stato un granché: era una storia bella da immaginare, ma una volta realizzata è solo una storia come un’altra, ne parlava Pasolini alla fine del Decamerone credo. Il decamerone di Luchetti sulla carta era una cosa fichissima, con mamme borghesi che scoprono l’amore saffico, artisti di neoavanguardia che al primo scompenso emotivo cedono al figurativo, e un bambino che riciclando i filmini estivi trasforma la Rivoluzione femminista in un carosello commerciale; una metafora potentissima a saperla maneggiare, e invece alla fine Luchetti non ci aveva tanta voglia.


Triste ma è così. Mescolando gli stessi ingredienti (rivoluzione e spot), quest’anno Pablo Larrain ci ha regalato quella meravigliosa riflessione sulla politica e la comunicazione che è No – i giorni dell’arcobaleno. Luchetti, che tante altre volte ha mostrato di saper infilare la politica nei film con estro e leggerezza (la sinfonia di Mio fratello è figlio unico!) stavolta non ci aveva voglia. D’accordo, è tutto visto attraverso gli occhi guardoni di un bambino che non aveva la minima idea di vivere sulla soglia degli anni di piombo – ed è meglio lasciar perdere qualsiasi riferimento alla cronaca piuttosto che rischiare l’effetto Meglio Gioventù, quella situazione per cui in un certo tipo di film italiani se qualcuno accende la radio c’è sempre una partita storica della nazionale, o un discorso di un leader politico o di un Papa. Resta l’imbarazzo di trovarsi di fronte a un autore che potrebbe raccontarti storie interessanti, che ha già dimostrato di saperlo fare come pochi in Italia, e invece ha solo voglia di dire: Papà, mamma, sono qui, ci sono sempre stato, e non me la scordo l’estate del ’74. Magari vi ho perdonato, ma non prima di mettervi in un film dove ormai siete più giovani di me e fate cose molto stupide, la neoavanguardia, il limonarsi a mezzo finestrino aperto, lo scopare in posti dove nessuno oggi riuscirebbe (la Mini Minor), eccetera, eccetera, eccetera. La memoria è un nastro super8 montato in loop. Ma andrebbe bene anche così, non c’è niente di male a rivendersi il sesso che hanno fatto i nostri genitori invece di interessarsi di noi – voglio dire, dopo che da bambino hai rivenduto i fotogrammi della tua fidanzatina all’industria pubblicitaria, non puoi veramente cadere più in basso. Non c’è niente di male a voler fare un film intimo e raccontare che a tua mamma negli anni Settanta piacevano anche le donne, tranne forse Micaela Ramazzotti.


Che è bellissima, è bravissima, e la vorremmo vedere in tutti i film italiani e anche stranieri, tranne in questo, che ha il trascurabile difetto di assomigliare un po’ a un film di tre anni fa, La prima cosa bella, che ci ricordiamo ancora tutti molto bene – anche perché non si sono visti parecchi film italiani all’altezza, da lì in poi. Ecco. Allora, cari esperti di casting, secondo me le cose stanno in questi termini: se nel giro di tre anni fate rifare a Micaela Ramazzotti un ruolo di mamma bisessuale di due bambini negli anni Settanta, dovreste perlomeno assicurarvi che il film sarà così bello, così meraviglioso, da farci dimenticare all’istante e per sempre di aver visto La prima cosa bella. Siccome ciò, senza offesa, era abbastanza improbabile, bisognerebbe almeno in questo film evitare di scritturare un’attrice che ci ricorderà, a ogni fotogramma, un film magari un filo più bello di questo – onde evitare che a luci accese tutti si mettano a bisbigliare: mmmsì, però vuoi mettere La prima cosa bella? A me sembra un ragionamento abbastanza lineare. Ma forse è prevalsa la voglia di rivedere la Ramazzotti madre bisex di due bambini negli anni Settanta. Posso anche capirvi: e siccome non c’è due senza tre, a questo punto mi aspetto un terzo film di Micaela Ramazzotti che ha due bambini negli anni Settanta e scopre l’amore saffico – ma sì, una bella trilogia, se gli americani ci hanno Batman e Guerre Stellari noi non possiamo avere le mamme lesbiche degli anni Settanta? Non so, stavolta si potrebbe ambientare nel Nord industriale o meglio ancora nel Sud arcaico: una torbida passione all’ombra dei trulli d’Alberobello, una mamma sedotta e abbandonata dalla postina, mentre i due figli appostati dietro i fichi d’india spìano tutto, spìano, spìano, maledetti bambini degli anni Settanta senza nintendo in mano. Daniele Luchetti è autorizzato a tirarmi un pugno in faccia per questa, chiamiamola, recensione. Dalla mano che ha girato La nostra vita sarebbe comunque un onore.

Anni felici è ancora per questa settimana al multisala Impero di Bra (infrasettimanale 20:20 e 22:30) – se siete appassionati di film in cui Micaela Ramazzotti interpreta mamme bisex degli anni Settanta datevi una mossa.
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Fottiti apocalisse

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Pacific Rim (2013, Guillermo Del Toro).

I Kaiju. Io non sono sicuro che a Cuneo possiate capire, che rompimento di coglioni siano i Kaiju. Uno guarda il telegiornale e pensa di farsi un'idea. Anch'io la pensavo così, poi si è aperta la faglia qua dietro. Niente di paragonabile per carità, lo sappiamo che i nostri son kaiju ruspanti, che non tirano giù grattacieli o centrali nucleari. Al massimo se la prendono con un condominio, una palestra, un magazzino. Però davvero non avete idea, di quanto rompano i coglioni i kaiju. Anche quando non escono. Magari stanno fermi per un mese - pensate che in quel mese noi si dorma? No, no, ci vanno nei sogni, li calpestano, sgambettano nei nostri progetti del futuro, ci lasciando la bava, fanno questo i kaiju. Ti svegli urlando: ma prenditi piuttosto un condominio. E lasciami i sogni. Prendi quello sfitto qua di fianco. Tanto i prezzi son crollati. Fanno questo i kaiju. Si siedono sul tuo mutuo ventennale, ci fanno la cacca di ammoniaca. Ti svegli sudato e vedi tua moglie che sta ditando lo smàrfon.
"Ma cosa fai a quest'ora".
"Ho sentito qualcosa".
"Stavi sognando".
"L'hai sentito anche tu, ti sei svegliato".
"Mi sono svegliato per la lucina di quel cazzo di smàrfon".
"Vedi? Lo sapevo io. Ne è uscito uno di seconda categoria, a Massa Finalese".
"Un kaiju di seconda categoria".
"Esatto".
"Mi hai svegliato per un cazzo di kaiju di seconda categoria, non lo senti nemmeno con gli strumenti un kaiju di seconda categoria".
"Magari adesso viene qui".
"Da Massa fin qui, certo. Manco i pompieri chiamano più, per un kaiju di seconda. Non ci vanno neanche i vigili urbani".
"Potrebbe essere l'inizio di una sequenza".
"Se prova ad attraversare il Secchia se lo mangiano le pantegane, un kaiju di seconda categoria. Io te lo rompo quello smàrfon di merda".
"Me l'hai regalato tu" (continua su +eventi)

Non so se da Cuneo riusciate a capirci, è che ce li portiamo a letto i kaiju. Di giorno rovistiamo i solai, le cantine abbandonate. Troviamo vecchi bracci di gru, motori dei Landini, campane sganciate da campanili sigillati.
“Ma cosa ci vuoi fare con la campana, dai”.
“È bronzo, è buono, ci facciamo la testa”.
“All’età del bronzo siam tornati?”
“Per prendere la rincorsa”.

Siamo la resistenza, cos’altro dovremmo essere. Abbiamo vaghe nozioni del tempo e dello spazio. A volte in qualche cassetto ci imbattiamo in un tesoro dell’infanzia – un torso intero di un Mazinga Z, qualche arto di Jeeg robot d’acciaio.

“Questo a diesel funziona”.
“E i raggi gamma?”
“Potremmo usare le resistenze”.
“Si fonde tutto”.
“Va bene, fottiamoci dei raggi gamma. Cerchiamo un’alabarda”.
“Spaziale”.
“L’antenna di via Marx”.
“Perfetta”.

Se avessimo saputo che tutto questo ci sarebbe servito – le catene di trasmissione dei Ciao Piaggio, carcasse di betoniere, l’argano dell’OM Lupetto, le teste di Daitarn…

“Non ci facciamo un cazzo con una testa di Daitarn”.
“Ma dai, è così bella”.
“Lo sai che va a energia solare, sì?”
“Così non sporca”.
“No, macché, devi soltanto rivestire tutta la città di pannelli fotovoltaici, pregare che non piova e aspettare che carichi per una settimana. E dopo hai abbastanza energia per fargli fare la demo. Hai presente la demo, sì?”
“E ora con l’energia del sole vincerò!“
“Con l’aiuto del sole vincerò. E poi si spegne”.
“Ma no, dai”.
“E il kaiju se lo incula”.
“Che schifo”.
“È successo, sai. A un Gundam di Crevalcore. Si è sbilanciato e si è bloccato a novanta. Il kaiju gli è arrivato dietro in un attimo”.
“Viviamo in tempi orribili”.

Ai bambini non sappiamo cosa dire. Tesoro, ci dispiace, abbiamo fatto un mutuo in una terra di mostri che non avevamo previsto – benché in certi affreschi cinquecenteschi ferraresi risultassero chiarissime evidenze di combattimenti tra draghi ed enormi armature – pensavamo fosse mitologia, pensavamo fosse fiction, ci dispiace tanto. Pensavamo che sarebbe andato tutto bene, l’economia avrebbe tirato per sempre, e sopra i vani degli euromissili americani avremmo riempito tutta questa vallata di villette a schiera col giardino l’altalena e la cuccia del cane. Invece stiamo scavando rifugi anche per te, tesoro. Facciamo fatica a guardarli in faccia, i bambini, e ci rimettiamo a rovistare vecchi garage.

“Una tastiera alfanumerica, potrebbe servire”.
“Se si leggessero le lettere… butta via, è uno Spectrum a sfioramento, ti partono le lame rotanti senza che te ne accorga. Ci tagliamo i piedi da soli”.
“Non ce le abbiamo le lame rotanti”.
“Mio cugino ha detto che ci porta le frese in ghisa, andranno bene. E questa che cos’è?”
“Robaccia, butta via”.
“Ma sembra antropomorfa”.
“È un pezzo di transformer”.
“Bleah. Ti suona il telefono”.
“Ah sì, è… è l’allarme”.
“Che palle. Che dice?”
“Ma niente, un… un terza categoria”.
“Dove?”
“A Fossoli”.
“Che palle. Che palle”.
“Avevano appena riaperto la scuola”.
“Viene verso di noi”.
“Piscerà su tutta la ciclabile, io adoro quella ciclabile. E la ferrovia…”
“Se intercetta il regionale per Suzzara fa un macello. Ci andiamo?”
“Non so. Abbiamo il torso di un Mazinga, i cingoli di un fiat trattori, la testa in bronzo…”
“Abbiamo l’alabarda”.
“In fondo è solo un terza categoria, voglio dire, gli fai un po’ di paura e scappa via”.
“Oppure gli spacchiamo il culo”.
“Pensi che possiamo?”
“Guardati intorno, fratello. Sta andando tutto a puttane. Dove vorresti essere mentre tutto va a puttane? Dietro una scrivania? In un cantiere? O dentro un torso di Mazinga?”
“Va bene, si va a Fossoli”.
“Stavolta gli spacchiamo il culo a quel bastardo. Dammi la mano”.

Abbiamo l’alabarda. Abbiamo i cingoli. Le lame rotanti arriveranno. Cancelleremo l’apocalisse un po’ per volta, come uno scarabocchio: con le nostre gomme staedtler smangiucchiate. I bambini alzeranno la testa e ci guarderanno negli occhi, e vedranno degli eroi.

(Pacific Rim è un film di Guillermo del Toro, costato dieci milioni di dollari in meno di World War Z e dieci milioni di volte più bello, con i robottoni di quando eravamo piccoli – sono proprio loro, sono arrugginiti, hanno tutte le scritte consumate, e si smontano appena provi a usarli. Ma sono tornati. Il mondo ormai se ne frega, il mondo ha altre priorità, ma loro hanno un lavoro da finire, un’apocalisse da cancellare. È difficile da spiegare, e non so se a Cuneo interessi. È un film di enormi robot che le prendono da enormi lucertoloni, e io ho pianto per mezz’ora. C’è che odio i kaiju. Li odio veramente tanto).



Pare che sia molto bello anche in 3d – lo dice Bernocchi ed è uomo di fede – la versione in occhialini è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:05 22:45 e al Multisala Impero di Bra alle 21:15. Lo trovate in 2d al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; ai Portici di Fossano alle 21:30; al cinema Italia di Saluzzo alle 21:30.
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Pimp My Francis Scott Fitzgerald

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Ciao, sono tornato. Cioè, non me ne sono mai
veramente andato via
Il grande Gatsby 3d (Baz Luhrmann, 2013)

Giulietta Capuleti, se proprio volete la verità, non si è mica uccisa. Nel director's cut inedito ha dato retta ai genitori, si è sposata il suo pezzo grosso di Verona Beach e adesso ha tre bambini, un conto offshore e una terza abbondante mastoplatica - sta già cominciando a stirarsi le rughe. Anche Romeo non si è ucciso, ha solo messo un po' di chili. Ha fatto la guerra, il giro del mondo in barca a vela, un semestre a Oxford e tante altre cose, non tutte legali. Ma è ancora lui, è il Romeo di Baz Luhrmann: si innamora al volo, e ogni volta è per sempre. Tanto carino e ombroso, eppur gioviale e alla mano, però ogni tanto gli scappa la pazienza e capisci che potrebbe ammazzare qualcuno. Ha sicuramente ammazzato qualcuno. Probabilmente il modo migliore per apprezzare il Grande Gatsby 3D è prenderlo per il sequel di quel vecchio Romeo+Juliet che ci fece conoscere sia Luhrmann che Di Caprio. Eravamo tutti molto più giovani, tranne il testo di Shakespeare. Quello era già stato condito in tutte le salse, Bernstein ci aveva già musicato West Side Story, cosa ci si poteva aspettare di più? Lo abbiamo scoperto allora, cosa aspettarci da Luhrmann: più tutto. Il cielo stellato a Luhrmann non basta, lui nel firmamento come minimo ci vuole la nebulosa di Andromeda ingrandita un milione di volte. Non c'è un pedale che abbia mai premuto con cautela, lui sa solo schiacciare a tavoletta: più luce, più colore, più melodramma, più baraccone, più canzoni, più buffoneria, più divismo, ma anche più aderenza al testo. Luhrmann lo tradiva meno di Zeffirelli, con la sua Verona toscaneggiante e le sue calzamaglie improbabili. Perché in fondo poi cos'è Romeo e Giulietta se non una storia di tamarri che si sfottono fino alle estreme conseguenze, e allora forse è giusto affidarsi a Luhrmann che è il più tamarro di tutti. Non che Zeffirelli sia la damina inglese che vorrebbe essere, eh; ma Luhrmann è di più. Più grosso. Più luccicante, più rumoroso. Luhrmann è uno che ti pimpa di brutto, Baz, mi è piaciuto come hai pimpato Shakespeare, perché non ti cimenti con qualche capolavoro della letteratura americana del Novecento? Non tirarti indietro, Baz, pimpami Francis Scott Fitzgerald!

Il Grande Gatsby è un film che va visto in 3d, mai mi sarei immaginato di scrivere una cosa del genere. Ma forse non avevo mai visto un vero 3d. Quello di Luhrmann fa impallidire Iron Man: niente oggetti lanciati al pubblico, ma una girandola di fondali di cartone - all'inizio sembra un film di animazione - come un libro pop-up. Il Grande Gatsby 3d è, in effetti, un libro pop-up, come quelli che si comprano ai bambini che non sanno ancora leggere per stupirli con i personaggi di cartone che spuntano fuori dalla pagina appena la apri. Fitzgerald scrive: "automobile", Luhrmann te la fa spuntare dallo schermo, lucida come un giocattolino appena uscito dal negozio. Scrive "luce verde", e lui ti mostra la luce verde, cinque, sei, venticinque volte, nessun bambino analfabeta deve perdersi la pregnanza della metafora. Anche l'insegna con gli occhiali, si è capito cosa rappresentano gli occhiali? Volete che ve la mostri un'altra volta? Non c'è problema (continua su +eventi!) 

Non c'è problema, abbiamo due ore, due e mezzo. All'inizio più che a un film hai la sensazione di trovarti in un rebus, a ogni parola corrisponde la cosa, su un foglio che è la pagina bianca nella macchina da scrivere ma anche la proiezione google earth di New York 1922; e tu sei il cursore, Baz ti muove con la velocità della luce da West Egg alla Quinta Strada, investito da una pioggia di parole dattilografate. Tobey Maguire sembra la sagoma di cartone di sé stesso, le sequenze gli girano attorno come pagine sfogliate da un bambino che si esalta per i coriandoli, e i fuochi artificiali, e poi arriva Leonardo: e per l'occasione, Luhrmann riesce a rendere tamarra persino la Rapsodia in Blue. Perché sono tutti bravi a fare i tamarri con l'hip hop, ma provateci con Gershwin, provateci. Baz ce la fa. E Francis Scott Fitzgerald non vi sembrerà più lo stesso, in effetti ora che ci penso non me lo ricordo più, chi era esattamente questo Francis Scott Fitzgerald?

Baz una sua idea ce l'ha. Scordatevi tutto quello che avete imparato nella classe di letteratura. Scordatevi il libretto che leggevate al liceo per darvi un tono. Scrostate la superficie, le frasette ben tornite. Soprattutto dimenticatevi tutti i cataloghi sugli anni Venti messi assieme in seguito da stilisti e trovarobe, tutta roba che si è incrostata su un libro di scarso successo man mano che diventava un feticcio culturale e finiva nei programmi scolastici. Scordatevi i maglioncini di Redford e gli sbuffi di Mia Farrow, perché è a quello che pensate il più delle volte che fate finta di pensare a Scott Fitzgerald. E ogni volta scivolate senza accorgervene dal West all'East Egg perché è da là che vorreste venire, non dal quartiere dei truzzi midwest in odor di camorra. Ma guardate meglio: non vedete? Gatsby era un tamarro, e lo siete anche voi. Cosa c'è di più tamarro, arcaico e tribale del suo potlach per amore, cosa c'è di meno elegante e più scemo di caracollarsi a Manhattan in macchina nel solleone, chiudersi in una suite al Plaza e pretendere di comprarsi non solo il tuo amore, ma anche il tuo passato. Gatsby, Nick, Daisy, Tom, sono tutte falene impazzite del midwest che corrono verso le luci della città senza sapere come ci si comporta. Come il loro creatore, Scott di Saint Paul, Minnesota. Non esattamente quell'arbiter elegantiarum che col tempo ci siamo immaginati che fosse (e anche lui, del resto, all'inizio Gatsby lo aveva chiamato Trimalcione). Aveva gusti discutibili: vedi l'entusiasmo per la brutta copertina originale, che nelle edizioni anglosassoni è diventata un elemento paratestuale obbligatorio: tanto che l'idea che qualche editore la voglia sostituire con una copertina ispirata al film, magari una foto di Di Caprio, desta scandalo in molti lettori. Luhrmann se la ride: a vedere il suo baraccone anni Venti verranno tutti comunque. I bambini e gli analfabeti faranno "ooh" per tutto il primo tempo, con la gioia di chi si imbosca a una festa. Gli intellettuali noteranno la lungaggine della seconda parte, quando le munizioni a coriandoli sono tutte sparate e l'energia orgiastica cede il passo alla fatica di dover comunque raccontare una storia.

Ma ci terranno lo stesso a vederlo fino alla fine, per assicurarsi che il libro era meglio, proprio come i lettori dei fumetti di Iron Man che sedevano nella stessa poltrona, con gli stessi occhialini, una settimana prima. The Great Gatsby forse non vi piacerà, ma vi piacerete da soli mentre lo stroncherete. È una tamarrata galattica, è pimp my Scott Fitzgerald, è Baz Luhrmann in tutto il suo splendore di cartone, e Leonardo Di Caprio è la migliore sagoma che gli sia mai capitata tra le mani (ma anche Maguire e Carey Mulligan, citiamoli, sono cartonati perfetti).
 
Il Grande Gatsby 3d è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 19:50 e alle 22:40, e al Multisala Impero di Bra alle 21:30. La versione in 2d è presente in molti altre sale in provincia e persino a Cuneo, ma secondo me vale la pena di vederlo in 3d.



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Le Disneyrapinatrici meet Corona

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COME SI FA A SBAGLIARE UN FILM
CON QUESTE PREMESSE?
Spring breakers - Una vacanza da sballo (Spring Breakers, Harmony Korine, 2012)

Sono andato a vedere Springbreakers, mi sono detto, facciamo 'sta cazzata.

Sono andato a vedere Springbreakers perché mi avevano detto che era fighissimo, coolest movie of the year tipo, una sera dopo che il mattino a scuola avevo mostrato l'Ultimo Imperatore, che secondo me è un bel film per introdurre la storia della Cina del Novecento, ma purtroppo ogni tanto Bertolucci infila una scena softporno, non sarebbe Bertolucci altrimenti, e mi tocca mandare avanti ma poi vado troppo avanti e allora mi tocca tornare indietro e in questo modo magari la stessa tetta se la vedono tre volte invece che zero, e io mi faccio tutta una serie di scrupoli, e poi questi magari la sera escono e vanno a vedere Springbreakers, tette culi sedicenni e James Franco che fa una fellatio al silenziatore di una pistola, con trasporto. Dicono tutti che è la più grande prova di James Franco. Io fossi James Franco non sarei tanto contento. Ma forse io in quanto James Franco me ne sbatterei anche molto.

Sono andato a vedere Springbreakers alle sei del pomeriggio, c'era un sacco di gente più o meno dell'età dei miei studenti, quelli che sanno distinguere Vanessa Hudgens da Ashley Benson, anche se praticamente fanno lo stesso personaggio e sono abbracciate per mezzo film. Le ragazzine facevano un baccano inverecondo. Mentre cercavo il mio posto mi sentivo già un lurido vecchio guardone. Quando sono partiti i titoli una maschera ha urlato Silenzio Chi Fa Confusione Lo Porto Fuori, come a scuola. Non mi era mai capitato. Sono andato a vedere Springbreakers e ho pensato, adesso faranno urletti per tutta la proiezione. Invece no, hanno smesso subito. Forse temevano di essere messi in castigo davvero. O forse hanno iniziato ad annoiarsi prima di me. I due tipini che avevo davanti hanno acceso il cellulare al quinto minuto e scrollato facebook per gli 85 seguenti. Minchia, facebook. Se mi chiedete come ho fatto a trattenermi dall'appioppare un paio di scapellotti a tradimento, ebbene, trattenermi dal menare preadolescenti è il mio mestiere. Quando si è accesa la luce hanno gettato il biglietto contro le compagne, colpevoli di averli portati a vedere un film di merda, 14 anni e la stessa opinione di Alessandra Levantesi Kezich, interessante:
$IAMO ANDATE ALLO $BRINGBREAK
ERA TUTTO BELLI$$IMO
ABBIAMO TROVATO TIPO NOI $TE$$E

Spring Breakers può avere una sua ragion di essere se lo pensiamo come un video d’arte dilatato sulla durata di 90 minuti; ma in quanto film è così appiattito sul gioco formale da sembrare non meno stupido e vuoto delle sbomballate protagoniste

Sono andato a vedere Springbreakers e mi sono annoiato. Tenete conto che Springbreakers è la storia di quattro ragazze Appena Maggiorenni (ma Appena Appena) che fanno una rapina per pagarsi la vacanza di primavera e la passano in bikini a Miami, come è d'uso, strofinandola addosso a tutti quelli che le invitano alle feste. Aggiungi che le quattro ragazze Appena Maggiorenni sono davvero Appena Maggiorenni e un paio sono famosissime attrici della Disney. Per dire che se ti annoi davanti a un film così, o sei in andropausa tu, o il regista è veramente scarso. O entrambe le cose. C'è anche James Franco che fa Fabrizio Corona, seriamente (continua su +eventi!)

No, in realtà fa il rapper spacciatore, con l'apparecchio dei denti placcato oro, e il bello è che è ispirato a un autentico rapper spacciatore di Miami che mette le sue esibizioni su youtube, lo spitty cash della Florida diciamo - ma si esprime esattamente come Fabrizio Corona quando parla con Pif (però il regista di Pif è più bravo), dice esattamente le stesse cose, che è fiero di essere stato cacciato da scuola e che vuole solo fare ca$h ca$h ca$h, sono andato a vedere Springbreakers e ho avuto un'illuminazione: in un Paese Normale, Fabrizio Corona avrebbe fatto il rapper. E rotto i coglioni uguale, ma senza andare in galera per delle foto del cazzo. Ma forse ci andava lo stesso per altri motivi ugualmente del cazzo, va' a sapere. Magari lui e Lele Mora si sarebbero litigati le zone di spaccio e si sarebbero mitragliettati a vicenda a un incrocio, magari è così che funziona la Normalità.

Sono andato a vedere Springbreakers, ma se stavo a casa e digitavo "spring break" su qualche sito per adulti mi divertivo di più. Forse. In ogni caso l'estetica è la stessa, clip di tizie che si strusciano sulla spiaggia mentre tizi entusiasti le lubrificano con la birra, avete un'idea di quanto puzzano i fondi di birra rovesciati misti al sudore, e poi si fanno le canne col caldo, la nausea al solo pensiero, insomma devo dire che a me questa roba non mi ha mai detto un granché, non mi arriva, preferisco altre cose. Ma in sostanza Korine voleva fare una release di Girls Gone Wild però d'autore, però vietata solo ai minori di 14 (quindi solo qualche tetta e qualche chiappa che sballonzola), però con le attrici Disney. Va bene. Va tutto bene. Si può fare arte anche così. Però non ce la conti mica tutta giusta, Harmony Korine.

E POI CERA JAMES TATUATO TANTI$$IMO
KE CI A PAGATO LA CAUZIONE ED ERA
TUTTO TIPO COME UN FILM PERO ARTISTICO
Sono andato a vedere Springbreakers e ho avuto la sensazione che l'opera d'arte fosse la confezione più che il film in sé. L'idea di attirare ignare quattordicenni con l'esca di Vanessa Hudgens e poi tramortirli con sesso droga pistole ma soprattutto tanta, tanta noia artistica. Tutto, dal titolo alla locandina, sembrava concepito per attirare i piccoli con la copertura della Solita Commedia di Sbomballati in Vacanza. E invece no, non è una commedia, è un fottuto montaggio di clippini metà youtube metà yousoftporn con voci fuori campo che ripetono sempre quelle quattro cose perché si sa, coi 14enni non si ripete mai abbastanza. "Voglio solo fare soldi! Springbreak forever!" Cioè per quanto sleale, Korine lo ha fatto davvero, un tentativo di avvicinarsi alla sintassi dei bimbominchia. Frasi semplici, reiterate, niente che non si possa scrivere in font 26 e ricalcare con l'uniposca, l'intero script sta in una dozzina di sms. Forse ho capito, Korine, volevi essere il loro primo Autore. Il primo Regista a stupirli con un'inedita visione delle solite cose che possono già vedersi in pigiama sui tablet mentre controllano gli status degli amici. Ecco perché Selena Gomez. Ecco perché Vanessa. Ecco perché mi sono rotto le palle. Sono andato a vedere un Manifesto, il Dogma '13 dei bimbominchia del cazzo, ma vaffanculo Harmony Korine.

Sono andato a vedere Springbreakers e ho trovato James Franco che mostra le pistole, mazzette di ka$h, "diversi tipi di shuriken", e poi dice: "Scarface! Il mio film preferito! Ce lo vediamo a ripetizione! Sìììì" Springbreakers è concepito esattamente per lo stesso scopo, per essere caricato su qualche lettore e poi proiettato in stanze in cui la gente fa altre cose. È solo sfondo, tappezzeria, è un film decorativo, ogni tanto alzi lo sguardo e c'è Vanessa che si fa un bong, che si fa una canna, che si struscia con Ashley, in un'ora e novanta ci saranno almeno quaranta situazioni in cui Vanessa si struscia con Ashley, i primi dieci minuti è interessante, poi le abbronzeresti a ceffoni, ma a chi la date a bere, siete meno lesbiche di John Wayne.

Sono andato a vedere Springbreakers e siccome un po' mi annoiavo (non ve l'ho già detto?) elaboravo teorie. Per esempio, metti che Vanessa e Selena non siano veramente così brave. Metti che appena fuori dai loro ruoli tipici siano terribili. Mi sembra difficile (soprattutto Vanessa) ma metti che. Un sistema per salvare il salvabile potrebbe essere "facciamo che è un film artistico, e le scene d'azione le montiamo alla cazzo, come fanno gli artisti, qualche fotogramma qua e là mescolato ai tramonti, la rapina la giriamo alla finestra che meno si vede meglio è, e anche le voci le montiamo fuori campo, qualche critico di sicuro ci cascherà", e qualche critico effettivamente c'è cascato, ma non Alessandra Levantesi Kezich, ad Alessandra Levantesi Kezich non gliela si fa.

Sono andato a vedere Springbreakers e c'erano due tizie che assaltavano il Palazzo del Pappone del quartiere senza mai cambiare il caricatore del kalashnikov. Per dire che il film "artistico" è persino meno verosimile di un action movie, cioè prendi Die Hard, in Die Hard può succedere qualsiasi cosa, puoi anche abbattere gli elicotteri coi furgoni, però persino Bruce Willis in Die Hard ogni tanto deve fermarsi e ricaricare, Vanessa Hudgens no. A Korine il kalashnikov interessa esteticamente, la poesia della sua silhouette che si staglia sul tramonto, e quei bei passamontagna rosa così iconici, ma vaffanculo Harmony Korine, ci hai la stessa estetica dei Segretissimo anni '70 con le tizie in bikini che impugnano virili pistoloni, mi sono sempre chiesto chi si comprasse roba del genere, chi si eccitasse con roba del genere, oggi poi, ma sparati un porno e non affettare pretese artistiche alla cazzo.

Sono andato a vedere Springbreakers e alla fine mi aspettavo almeno un po' di sangue, un finalino finto-moralista per mettersi a posto la coscienza. Dopotutto ce l'ha persino Scarface, il film più filo-gangster che ci sia (tant'è che non c'è un gangster o camorrista a cui non piaccia). E invece. E invece niente, secondo me Korine non è in grado nemmeno di fingere un po' di moralismo, e non è un complimento, è proprio che non sa fingere un bel niente, ma il cinema è fiction, la differenza tra una playlist di clippini di adolescenti che sculettano e il cinema risiederebbe anche in cose del genere, nel saper cominciare una storia e finirla, e non perdere i personaggi per strada così, senza neanche dirci che fine fanno.

Sono andato a vedere Spring Breakers, e intanto riflettevo che la superficialità dei ggiovani è sempre un ottimo alibi. Se non sai andare nel profondo, se hai la stessa profondità di un account instagram, puoi sempre fare finta che i tuoi film siano sulla superficialità degli altri. Korine quand'era giovane mica ci andava agli Spring Break, in un'intervista ha detto che era troppo concentrato sullo skate (???). È tutta una fantasia bavosa di ritorno su foto sbirciate di nascosto, profili facebook lasciati aperti, e la confezione patinata è la solita vecchia scusa, la solita vecchia scusa a cui non crede più nessuno. Sparatevi. Un. Porno.

Sono andato a vedere Springbreakers - però mi pagavano. Mettiamola così. Devo fare ca$h, come Spitty, come James, come tutti, devo andare al mare anch'io quest'estate, tutta 'sta pioggia non ne posso più.

Spring Breakers - Una vacanza da sballo, brutti pervertiti, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30; 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:30).


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